Anna scorreva svogliata e assonnata la newsletter di metà anno accademico…
testo di Debora e illustrazioni di Valentina
Anna Sisu, docente e ricercatrice universitaria, seduta alla scrivania del suo ufficio davanti al pc e isolata dal brusio proveniente dal corridoio grazie a un paio di grandi cuffie ricevute in regalo dai figli, scorreva svogliata e assonnata la newsletter di metà anno accademico.
Punto n. 19. Premio Bertoloni 2022: “al miglior lavoro di ricerca sul legame tra piante e insetti impollinatori, che garantisca al contempo indubbi risvolti economici e soluzioni innovative per assicurare la conservazione della biodiversità e una transizione ecologica quanto mai impellente”.
Anna sussurrò qualche velata imprecazione sulle vaghe prescrizioni appena lette e incominciò, come era solita fare, a ragionare ad alta voce. Le vennero in mente i racconti che ascoltava quando suo papà la portava in montagna, nel cuore di quelle Alpi che guardava innamorata dalla finestra dell’ufficio torinese durante le terse giornate d’inverno. Nei suoi pensieri fece capolino una montanara, anziana guaritrice, che durante le vacanze natalizie di quarant’anni prima le raccontava di quella che chiamava “Androsace humilis” e di quanto fosse importante per le api, per le farfalle e per i fiori che crescevano nei pascoli.
In men che non si dica Anna chiamò a rapporto la “sua” truppa di fiducia. Puntuali come studenti disoccupati giunsero Elena e Bruno, giovani tesisti sognatori con un certo numero di esami universitari in sospeso e una gran voglia di partire con lo zaino in spalla e l’alibi della stagione di campo. Seguirono Amelia, trentenne laureata in chimica finita a gestire un rifugio alpino assalito da turisti impazienti, sopraggiunta di corsa e trafelata per i cinque minuti di ritardo, e l’impassibile Pietro, guardia forestale, quarantenne appassionato di tutto ciò che è clorofilla e stufo della quantità di scartoffie che avevano invaso la sua scrivania. A varcare la soglia mezz’ora dopo, in maniche di camicia a quadri e riccioli arruffati, fu il serafico Ugo, decennale curatore di giardini botanici, uomo abile in qualsivoglia attività pratica e dotato di una gentilezza infinita.
Ruotando lo schermo del computer, Anna illustrava ai convenuti tutto ciò che era necessario sapere: «Prendendo in considerazione l’areale di distribuzione di Androsace pubescens (che è la specie più affine a quella non ancora descritta), e tenendo conto dei fattori di rocciositá, pendenza del substrato, esposizione, apporto nevoso, latitudine e posizione del sole al tramonto, l’Androsace humilis dovrebbe trovarsi… in questo quadrante!». Sovrappose ai quadrati rossi la base cartografica in cui comparve in corsivo il nome del monte su cui avrebbero trovato la specie: “Uja di Oltresguardo”.
Ciascun membro della truppa si inventò una scusa più o meno credibile per fuggire dal trambusto quotidiano e preparare uno zaino colmo di tutto ciò che potesse servire per l’ascesa e per la ricerca e descrizione della nuova specie. Si ritrovarono al parcheggio dove incomincia la mulattiera, sorridenti, scapestrati, tesi e curiosi. Con passo lento e regolare snocciolavano dislivello, e man mano che salivano lasciavano indietro alberi che non avrebbero più rivisto fino al ritorno a valle. Salutavano infine i larici, ardite conifere, gendarmi resistenti ed estremo avamposto arboreo dinnanzi ai ciclici schiaffi delle intemperie. L’ascesa si rivelò più serena del previsto, e salendo il gruppo si spogliava delle pressanti richieste del vissuto quotidiano.
Poco prima del tramonto, giunsero in cima con la nebbia che saliva dal versante opposto. Pur avendo ispezionato ogni anfratto e frattura della roccia, dell’Androsace non trovarono alcuna traccia, ma all’improvviso e con gran sorpresa di tutti, la lunga ombra di Ugo fu proiettata al centro di una sfera arcobaleno. Ci saltò dentro d’istinto, con la grazia di un tasso, seguito dagli altri membri del gruppo che scomparvero così dalla cima per ritrovarsi presumibilmente duemila metri più giù, di fronte a un’asse di larice levigato su cui era dipinta la scritta: ”Alpe Sogno inferiore”.
Anna scorreva svogliata e assonnata la newsletter di metà anno accademico…
La lunga ombra di Ugo fu proiettata al centro di una sfera arcobaleno.
La conoscevano Anna: giusto il tempo di una barretta energetica, e di nuovo a faccia in giù, a cercar piante. Per quanto munita di lente d’ingrandimento e rinomate guide botaniche, la truppa realizzò che la scienza si era persa un po’ più di una specie. Dopo un susseguirsi di esami di ghiandole, peletti e ovari, per la quarta volta non riuscirono a dare un nome alla specie in analisi. Alzando gli occhi dai ciuffi d’erba notarono un gregge di capre dalle corna azzurre e multiramificate, guidate da una ragazza suadente e atletica, intenta a raccogliere erbe selvatiche ai margini del pascolo.
Pur fischiettando un motivetto spensierato Dafne, margara dell’Alpe, si era accorta subito del loro arrivo e quando aveva percepito il loro sconforto si era avvicinata sedendosi accanto a loro. Indicò un carice dagli otricelli violetti e antere ricciolute con apice stellato: «Quello è Carex gentilensis, mentre quel pennacchio sulle sponde del lago si chiama Eriophorum simplicium, e il trifoglio che si sta mangiando Minuartia, la mia capretta, è il Trifolium sensibilis». In poche parole aveva risolto i dubbi che attanagliavano la truppa da tre quarti d’ora. «Posso prestarvi questa…» concluse porgendo loro un libretto illustrato dal titolo “Phytoalimurgia altermontana”.
La ringraziarono e contraccambiarono aiutandola a riempire il sacco di tela con ortiche dalle foglie quadrate, e con un rimbalzo di cortesie finirono ospiti al vicino rifugio gestito da Paolo, fidanzato di Dafne. In quel tardo pomeriggio, con la complicità di un cielo color zolfo che minacciava di lasciar cadere secchiate d’acqua accompagnate da fulmini e saette, erano poche le ciabatte degli avventori che facevano scricchiolare il vecchio pavimento di legno. Paolo sapeva approfittare di queste occasioni: se ne stava seduto vicino alla luce della finestra, intento a intagliare quella che sembrava l’anta di un mobile, con mani che sapevano di pazienza e praticità. Linee pulite, dritte, decise.
Li accolse con il fare tiepido e prudente di montanaro, poi quando Pietro con qualche posata domanda toccò le giuste corde, la conversazione iniziò a fluire e Paolo parlava con due entusiasti occhioni scuri: «Mi piace dare una seconda vita al legno… per me l’intaglio è saper andare oltre l’apparenza delle cose, grattare via la superficie ed imprimere poche linee essenziali per far emergere il bello».
Cenarono tutti insieme come in un ritrovo di vecchie amicizie, e dopo una squisita minestra di ortiche e altre prelibatezze Dafne e Paolo tornarono alle ultime incombenze della giornata, mentre Anna restò con la sua truppa attorno al tavolo. Si misero a sfogliare le tavole della guida ricevuta da Dafne, e vi ritrovarono i nomi delle piante fino a qualche ora prima sconosciute. Nelle prime pagine si leggeva: “Carex gentilensis, Eriophorum simplicium e Trifolium sensibilis (semi): garantiscono ai fanciulli i valori nutrizionali soglia di gentilezza, semplicità e sensibilità”; “Aquilegia meditationis: l’infuso di 5 foglie assicura la dose giornaliera consigliata di esercizio del pensiero. Un raddoppio di dose potrebbe portare ad effetti collaterali quali eccessiva indecisione e smisurata ponderazione delle plurime variabili che influenzano ogni situazione”.
Il capitolo “Pillole di alta montagna” continuava: “Come integratore per l’alta quota si aggiunga all’impasto del pane la farina ottenuta dalla tostatura di 50 faggiole di Fagus ars-audiendi e di altrettante castagne di Castanea observandi per migliorare l’attitudine all’osservazione e l’arte del saper ascoltare. Il pane ottenuto garantisce migliori capacità di equilibrio tra le energie impiegate nell’incedere e quelle spese nella favella, con evidenti benefici derivanti dal fiato risparmiato ed ancora fruibile per le impegnative funzioni respiratorie nell’aria rarefatta. La medesima ricetta migliora le prestazioni anche a bassa quota, e protegge dagli attacchi di sproloquite acuta virale”. Stanchi per le emozioni della giornata e frastornati dalle tante novità, i membri della truppa crollarono davanti a un bicchiere di Nigritelle des prés.
L’indomani mattina dopo una frugale e apprezzata colazione Elena e Bruno presero alcuni appunti dalla Phytoalimurgia altermontana, mentre Ugo e Amelia scattavano alcune foto agli intagli di Paolo, e Anna e Pietro consultavano la carta 1:25.000 appesa alla parete d’ingresso del rifugio per individuare un nuovo terreno di ricerca. Le luci del mattino filtravano attraverso gli aghi dei larici coperti di rugiada, con quella delicatezza che lascia presagire i primi sussurri dell’autunno.
«Mi piace dare una seconda vita al legno… andare oltre l’apparenza delle cose, grattare via la superficie ed imprimere poche linee essenziali per far emergere il bello».
In una lunga fessura tra due blocchi di gneiss scorsero, illuminata dai raggi del sole, la leggendaria piantina.
Poco lontano dal rifugio ritrovarono Dafne indaffarata nella produzione del Gelassenmatt, tipico formaggio a pasta grassa che la sera prima aveva allietato i palati della truppa. Anna le si avvicinò per restituirle la guida rivelatrice, ed approfittò dell’esperienza della ragazza, per cercare di ottenere informazioni sull’Androsace che aveva animato i suoi racconti d’infanzia: «Potrebbe trattarsi di Androsace humilis?» le chiese, quasi con imbarazzo. Dafne spalancò stupita i suoi profondi occhi verdi, esitò per un attimo, poi rivelò fiduciosa: «La troverete in prossimità dell’Uja di Oltresguardo, superato il torrione che separa il Colle di Vassilissa dalla cresta terminale che porta all’Uja… ma sappiate che è vietato raccoglierla».
Con traboccante malinconia la truppa ripartì determinata verso l’obiettivo della spedizione. Dopo qualche ora di cammino fecero una breve sosta al Colle di Vassilissa. La nebbia iniziava a salire e l’unico rumore era quello dei gracchi in volo che fendevano l’aria umida. Quel gruppo così stranamente assortito non si era mai sentito così unito e sereno nell’affrontare le difficoltà. Con qualche passaggio di primo e secondo grado superarono il torrione di roccia, e si accinsero a ridiscendere di un centinaio di metri con il detrito che frizionava sotto gli scarponi.
Giunti a un secondo colletto comparve dinnanzi a loro l’Uja di Oltresguardo: per uno strano effetto ottico la cima, accarezzata dalle nebbie, sembrava sdoppiata in due guglie di cui non si capiva quale fosse la principale. Avevano da poco ripreso la salita, quando la nebbia iniziò a diradarsi e in corrispondenza di un passaggio angusto, in una lunga fessura tra due blocchi di gneiss scorsero, illuminata dai raggi del sole, la leggendaria piantina. Sotto la lente d’ingrandimento di Anna appariva in tutto il suo splendore: un cuscinetto di fitte foglie cuoriformi ricoperte di una peluria sottile faceva da cornice a grandi fiori rosa che al centro sfumavano nel viola. Gli stami erano un tripudio di polline, e minuscole ghiandole nettarifere sprigionavano un profumo dolce come miele d’acacia e intenso come resina di pino cembro. Anna ed Amelia erano sulla soglia delle lacrime. Accanto a loro, in un cerchio dall’equilibrio precario, Ugo e Pietro in estasi non riuscivano a trovare parole di senso compiuto, ed Elena e Bruno iniziarono a scattare foto a raffica.
Poche ore prima, l’umile e sapiente Dafne aveva spiegato loro che alcune proteine contenute nel nettare prodotto da quell’Androsace agivano come un potente integratore su insetti quali api, bombi, farfalle e ditteri sirfidi. Dopo aver succhiato il nettare di Androsace gli impollinatori percepivano molto più intensamente le molecole odorose e nei loro occhi si moltiplicavano i pigmenti sensibili ai raggi ultravioletti. Così i piccoli moschettieri dell’aria venivano guidati da profumi e colori di fiori lontani anche chilometri, e volando di fiore in fiore contribuivano a impollinare migliaia di specie.
Più la guardavano e più capivano perché la sua raccolta fosse vietata, e realizzarono che dalla sua esistenza dipendeva l’impollinazione di tutti gli altri strabilianti esseri clorofillosi che popolavano le terre emerse.
«Toc toc» … «Dottoressa Sisu, Buongiorno! So che questo periodo è pieno di scadenze, ma le ricordo che per venerdì dobbiamo consegnare anche la relazione dell’attività annuale per la Società di Studi Botanici. Mi mandi la bozza entro domani sera, per favore.».
La porta dell’ufficio si chiuse. Erano le 16,30 ed Anna tornò bruscamente alla realtà con un leggero cerchio alla testa. La pagina di ricerca del computer era un tripudio di Androsace di ogni specie.
Bello bello bello coinvolgente emozionante e divertente, oltremodo belli i disegni.
Complimenti