testo e foto di Jussi Chinchio / Padova
Quando arriviamo al bivacco è già gremito. Noi siamo le ultime due persone che hanno diritto ad un letto. È pomeriggio inoltrato ma il sole brilla ancora alto in mezzo ad un cielo diaccio.
La giornata è stata assolata e per nulla fredda. Attorno a noi neve che appare tale ma che in realtà è ghiaccio compatto da mordere con le lame dei ramponi.
Dentro il bivacco si avverte un lieve tepore anche se la temperatura è poco più alta di quella esterna. Qualcuno ha acceso la stufa che però brucia male ed il fuoco appare soffocato. La vera differenza tra l’interno e l’esterno è l’assenza di vento che fuori soffia ingiurioso e freddo. Mi guardo attorno per abituarmi allo spazio ed entrare in sintonia col luogo che sarà casa e riparo per questa notte. Scambio frasi di circostanza con i ragazzi già insediati. Il clima è insolitamente familiare. Sembra, assurdamente, di conoscere ogni persona da un sacco di tempo. Come se la promiscuità di questo piccolo ambiente abbattesse ogni distanza. Come se l’unica cosa a contare non sia tanto da dove si arriva, cosa si è o in quale modo ci si guadagni la vita; l’unica cosa importante è il dove ci si trova. Il presente nel presente, un solo tempo da vivere qui e ora.
Cominciamo automaticamente ad organizzarci pur senza conoscerci. C’è chi sistema, chi esce a procurare legna, chi ravviva il fuoco ed è un compito che mi assumo volentieri io. Tutto questo in maniera molto naturale come se esistesse una lista di faccende da sbrigare ed ognuno sapesse esattamente quale sia il proprio compito.
Poco dopo entrano altre cinque persone ed un cane. Anche questo fatto non rappresenterà un problema nonostante non bastino i letti. Nonostante si stia un po’ più stretti. In montagna esistono leggi a sé stanti spesso simili alle leggi del mare.
Nulla di scritto ma semplici codici di condotta che sembra si siano tramandati per via orale nel corso dei secoli. Mare e montagna sono parenti stretti ed i loro comandamenti mi piace pensare siano nati in un filò ai confini del tempo. Una storia pratica costituita da gesti necessari.
Ce ne sono diverse di queste leggi e la prima, dalla quale scaturiscono tutte le altre, è quelle del soccorso. Non si abbandona nessuno e tutto il resto è la logica conseguenza di queste semplice regola.
Attorno a me c’è un chiacchierio indistinto al quale non presto troppa attenzione. Sono assorto nella mia attività che è quella di far funzionare questa benedetta stufa. Apro lo sportello per sistemare la troppa legna ammassata al suo interno che tende ad inibire la fiamma. Nel farlo una zaffata di fumo mi lambisce il viso spandendosi nel locale.
Come in un’allucinazione onirica mi sembra di vedere zampe come mani, occhi disperati ed un’isola continentale che brucia. Canguri abbracciati dentro un cerchio di fuoco, piccoli koala che bevono da bottiglie di plastica. Uccelli affaticati dal lungo volo senza rami sui quali posarsi.
Ravvivo il fuoco ed ora la fiamma splende e brucia con regolarità; apro le finestre per far circolare l’aria pregna di fumo e poi esco a cercare ossigeno e un breve attimo di solitudine.
Fuori il sole comincia a tramontare dietro le montagne. Il vento è calato lasciandosi dietro un freddo asciutto e pulito.
Rimanendo immobile posso sentire lo scorrere del tempo. Il moto regolare di questo pianeta terra che ci rende tutti paradossalmente in costante movimento. Migranti perenni, ospiti perpetui. Illusi di avere fissa dimora. Mi godo qualche attimo di silenzio e mi accendo un cigarillo godendomi il panorama.
Ho sentito dire da qualche parte che un bel paesaggio non va mai sprecato. Bisogna che gli occhi abbiano il tempo di bersi l’orizzonte, imprimendolo nella retina e da lì fissarlo alla memoria. Ogni tanto se chiudo gli occhi posso rivedere scorci bellissimi di altri luoghi, di un altro tempo, di un’altra mia età.
La porta del bivacco si apre ed esce il mio amico che mi porge una birra prima di allontanarsi a fotografare il tramonto. Una volta amavo pure io fare foto, però spesso preferivo godermi lo spettacolo senza il filtro della macchina fotografica. Preferivo la memoria al documento per l’assurdo timore di non vivere appieno un’emozione col solo scopo di intrappolarla da qualche parte.
Decido di rientrare anche per controllare la stufa. Dentro i ragazzi si sono accomodati attorno al tavolo, compresi gli ultimi arrivati. Conversano fra di loro, io mi aggiungo al desco presentandomi e intervenendo di tanto in tanto alle varie conversazioni. Ognuno ha messo al centro del tavolo i propri generi di conforto. Il vino portato a spalla sin quassù. Il vino della festa per il percorso completato. Berlo in compagnia gli dà un valore aggiunto. La naturale condivisione delle proprie vivande. È bello vedere bottiglie di vino passare per mani sconosciute assieme a formaggi ed affettati. Una sorta di famiglia improvvisata che con ogni probabilità non si rivedrà più. Di nuovo il presente; qui e ora.
Arriva l’ora di cena, ora benedetta. Il mio stomaco brontola perché oggi ho raschiato bene il fondo delle energie. I più tirano fuori minestre e risotti liofilizzati mentre noi senza ritegno “buttiamo su una pasta”.
La serata trascorre tranquilla e allegra, il cane di tanto in tanto gira tra i commensali a elemosinare carezze e cibo. C’è una bella atmosfera qui dentro, una parentesi di vivace allegria.
Fuori ci sono solo le montagne e a malapena si scorgono le luci dei centri abitati. Ho la sensazione di essere lontanissimo da ogni luogo; mi sento un naufrago sotto un cielo di stelle che galleggia sopra un mare abbondante di pesci. Poi è successa anche questa bella serata che ad organizzarla mica riusciva così bene. Si ride, si parla, incuranti del domani, che si sa essere il passo del viandante verso valle. È tutto talmente provvisorio che mi fa persino apprezzare di più la situazione. Gli incontri spesso finiscono col viaggio e non credo sia una cosa positiva o negativa in senso assoluto.
Verso le nove e mezza cominciamo a prepararci per la notte. Esco a fumarmi l’ultimo cigarillo e a lavarmi i denti. Guardandomi attorno, in questa cornice di montagne che al buio se ne scorgono solo i profili, mi rimbalzano in mente i racconti di Mario Rigoni Stern. “Storia di Tönle” in particolare; un uomo che aveva attraversato l’Europa e le sue montagne per poter portare qualcosa in tavola. Un uomo che era stato contrabbandiere, fuggiasco, pastore, marito e padre. Esule, migrante, innamorato di casa sua e del ciliegio selvatico cresciuto sopra il tetto della sua baita. È una storia dolcissima, dura ma soprattutto è narrata con sapienza.
Penso spesso a chi ha fatto della montagna uno sfogo puramente atletico. Dai primi alpinisti che hanno tracciato vie col merito ingrato di non aver permesso di ricordare le guide locali che spesso erano cacciatori o trovatori. Mai si sarebbero conquistate certe cime in certi anni senza la saggezza dell’abitante della montagna. Un po’ come gli sherpa, facchini d’alta quota, ma in realtà i migliori alpinisti. Salgono senza l’ansia di un record da appuntarsi al petto; salgono come salivano quassù all’epoca: per portare il pane alla bocca.
Penso a me stesso a metà strada fra l’esigenza atletica e la volontà di comprendere questo mondo anche se ciò non mi rende necessariamente migliore. Quassù trovo la calma necessaria per continuare ad affrontare la mia vita, quassù cerco forse un’illuminazione o chissà che altro. L’unica certezza è che qui sto bene come in nessun altro posto. Per il poco tempo che riesco ad esserci mi sento appagato. Quando mi sento soffocare dal quotidiano comincio a pensare a qualche sentiero nuovo, a qualche fianco di montagna che non ho ancora battuto. Perché forse parte di me abita quassù o mi piace semplicemente pensarlo.
Cerco di vivere questi luoghi con occhi altrui.
Cerco di vivere questi luoghi come se ci fossero ancora più abitanti che atleti.
Il buon Tönle si ritrovò anche in mezzo alla guerra, la prima del secolo novecento. Guerra che è passata fra queste montagne e ancora la mia memoria slitta in un’altra direzione.
Ora penso a Cesare mio vicino di casa, nonno per certi versi. Mi ha visto crescere mentre io lo vedevo invecchiare sempre più. Il giorno del suo funerale, la moglie ha preso le mie mani fra le sue, nodose come un vecchio faggio. Mi ha detto che Cesare è andato avanti prima di lei. Non ha parlato di morte, anche se sottointesa, si è riferita alla perdita del suo compagno come ad una parte di un viaggio: la vita forse il più straordinario dei viaggi.
Nei suoi occhi ho rivisto il me bambino a casa loro, nell’orto con Cesare che mi ha insegnato così tanto anche se negli ultimi anni della sua vita non sono andato a trovarlo spesso. Forse è un po’ la vita che conduco che è quella che conducono un po’ tutti. Una vita che a volte porta a pensare di avere sempre tempo quando in realtà per chi è a fine corsa ogni attimo è fondamentale perché potenzialmente ultimo. Una frenesia collettiva che ci allontana dall’essenziale e ci penso solo ora che il corpo sia tornato alla terra. Non ho salutato Cesare come si deve, dalla mia ultima visita alla sua dipartita c’era l’intervallo di un mese e lui se ne è andato in fretta, benedetto da una morte senza dolori.
Anni fa ho avuto la lungimiranza di intervistarlo circa la sua storia ed è bello ogni tanto sapere di poter strappare la sua voce all’oblio. Sentire ancora una voce viva. I suoi ricordi, la sua giovinezza. La buffa storia della sua diserzione nel settembre del 1943 quando, nella confusione generale, non arrivavano più ordini dai centri di comando. Le truppe sbandante non sapevano cosa fare e lui come molti tornò semplicemente a casa. Passò i due anni successivi a nascondersi nei campi quando le guardie di regime passavano casa per casa a cercare i disertori.
Poi la guerra finì e la vita in un senso lato tornò ad una sorta di normalità. Cominciò la ricostruzione che pose le fondamenta dell’attuale sistema mondo.
Cesare lavorò come postino, prima dell’avvento di scooter e furgoni. Si alzava ad orari barbari e spesso pedalava fino a Verona, dove passava il sacco della posta ad un collega e ne riceveva un altro da rientrare a Padova. I corrieri espressi in quegli anni viaggiavano in bicicletta e le tempistiche di una raccomandata non erano dissimili da quelle odierne. Rientrato a casa non c’era riposo ma terra da lavorare, se era periodo, o la culla del sonno se era inverno. Mancava tutto in quegli anni e qualsiasi nuovo agio, dai mattoni per la casa alla stufa comportava sacrificio e lavoro. Quel che mi è rimasto impresso dei suoi racconti non è tanto la rinuncia, lo strenuo risparmio, il sacrificio anche alimentare; cose ammirevoli ma dettate dalle condizioni spesso obbligate. No: ciò che mi ha meravigliato in quelle storie, non troppo lontane, era la capacità di essere solidali e generosi pur nelle avversità. Nelle vie e spesso nei quartieri esisteva un mutuo e muto soccorso, inteso come aiuto. Tra vicini ci si aiutava, ci si conosceva e si condivideva andando ognuno a supplire le carenze di un prossimo. Un buon vicinato, accomunato anche dallo stesso vissuto. C’era fratellanza e per carità, non credo fosse nemmeno un mondo fatato di coniglietti rosa. Credo si litigasse come dappertutto però si era in grado, comunque, di vivere in quello che in senso stretto si definisce comunità.
Adesso nel presente di una sveglia naturale apro gli occhi e mi ritrovo in questo bivacco. Sento i movimenti di chi come me è sveglio e chi continua a russare. Mi levo a sedere e mi stropiccio gli occhi. Comincio la lenta danza dello smontare il campo. Cerco di fare meno rumore possibile ma senza preoccuparmi di essere troppo silenzioso. È un’alba d’alta montagna. Esco dal bivacco e respiro l’aria fredda. Graffio la neve ghiacciata per spalmarmela in viso. Silenzio spezzato solo dall’ululare del vento. Rientro. Giacomo, il mio amico armeggia col fornellino e la moca. È ora del caffè prima di rientrare a valle. Poco alla volta si destano tutti. Ultimo pasto assieme, rigovernare, ripristinare gli zaini, spegnere la stufa ed infine calzare i ramponi, i debiti saluti e andare.
Nella discesa mi si stringe sempre il cuore come ad ogni ritorno da un viaggio. Ho sempre pensato che sarei morto dove sono nato, non ho immaginato altro luogo dove poter vivere e chiudere il cerchio. A volte, ad essere onesto, ho pensato di andarmene. Scomparire chiudendo i ponti dietro di me. Se mai dovessi andarmene non sarà ad altra condizione che questa. Nel mio modo di vedere le cose esiste solo una tabula rasa o la presenza. Non credo nelle vie di mezzo. C’è un detto marchigiano che recita così: la lepre dove nasce pasce e dove pasce muore.
Io amo profondamente la mia terra anche se spesso avverto una profonda idiosincrasia con essa per una serie infinita di motivi. Quali, ad esempio, l’attaccamento al lavoro, una mal riposta diffidenza nel prossimo, un nazionalismo regionale tendente ad un arrogante senso di supremazia.
Però so nel profondo che è tutta superficie, rurale ignoranza e che sotto la corteccia c’è un cuore buono in quasi tutti gli abitanti di questa terra splendida. C’è un retaggio che ha portato i figli dei figli ad indurirsi nella logica di lavoro e sudore. Nella logica del “xe mio”.
È anche vero che nelle difficoltà il popolo veneto tira fuori il meglio di sé. È un tipo umano che non si arrende e non si abbatte. Il veneto bestemmia e poi ricostruisce e sa dimostrarsi infinitamente generoso quando lo vuole. Il più delle volte rientro nel tipo veneto ma spesso non mi riconosco e mi offende l’ottusità dei miei corregionali.
Ringrazio il cielo, Dio o chi per esso di avermi fatto nascere qui e lo maledico allo stesso tempo e per gli stessi motivi.
In queste ore di discesa, col fiato corto, con i nervi tesi e gli occhi vigili per non mettere i piedi in fallo non riesco a porre un freno ai miei pensieri. Mi succede sempre al ritorno. La mia mente viaggia a briglia sciolta annodando pensieri apparentemente non coesi.
A volte penso mi piacerebbe essere un faro piantato in mezzo al mare che brilla di luce al suono di sirena di una nave che affronta una tempesta. Un faro è come la luce di un rifugio quando il sole è tramontato e non si vede la traccia. È quella gioia che fa sussultare il cuore e dire che finalmente è finita; ce l’hai fatta.
Lo spazio aperto finisce e ora ci inoltriamo nel bosco. Possiamo togliere i ramponi anche se sopravvive qua e là qualche lingua di ghiaccio insidiosa e bastarda che a volte ci fa poggiare il culo a terra.
Oramai siamo sulla strada forestale che ci porta inevitabilmente al parcheggio. Mi volto a guardare le montagne senza sapere che sarà un arrivederci più lungo del previsto.
Qui siamo in Trentino, che si unisce al Veneto tramite un’arteria liquida e se sapessi suonare comporrei un Brenta blues. Una ballata malinconica che annega nell’Adriatico. Però purtroppo non è fra i miei talenti e mi accontento di scrivere sperando sia una mia capacità.
Ora che siamo arrivati possiamo bere una birra e mangiare un panino. I cellulari hanno di nuovo campo e Giacomo spia lo schermo del telefono con aria preoccupata. Mi accenna di un focolaio di un virus partito dalla Cina che ha contagiato un’intera frazione del padovano. Un virus che in realtà aveva già paralizzato delle città cinesi per quasi due mesi.
È buffo come la mente attraverso meccanismi tortuosi faccia emergere ricordi apparentemente dimenticati. Quel virus, queste montagne e Tönle mi fanno di nuovo pensare alla prima grande guerra. All’influenza spagnola che infettò cinquecento milioni di persone fra il 1918 ed il 1920, uccidendone cento milioni su una popolazione all’epoca di due miliardi. Quella che noi in quel momento stavamo leggendo come un’epidemia si trasformerà in una pandemia.
Questo virus di cui non faccio il nome ci costringerà in un futuro non troppo lontano ad una reclusione forzata dal governo per cercare di contenere il contagio. Ancora una volta la natura colpisce col bastone più grosso che ha, dandoci l’ennesima e mi auguro più importante lezione. Non siamo onniscienti. Siamo solo esseri arroganti che hanno voluto piegare le leggi della natura fino a farla infuriare. Abbiamo distrutto ecosistemi interi, danneggiato irrimediabilmente terra, acqua e cielo e ora attraverso un nemico impalpabile quanto invisibile la natura stessa ci paralizza. Per il tempo che saremo reclusi il mondo respirerà dimostrandoci che non siamo invincibili, né indispensabili. Gettandoci nel panico, terrore, frustrazione. Però ancora dimentichiamo gli ultimi. Perché non tutti hanno riparo. Non tutti possono procacciarsi cibo semplicemente pagando. Desidero solo che soffriremo abbastanza da non dimenticarcene troppo presto.
Confido che le morti che arriveranno non saranno inutili ed insensate.
Confido che non faremo più annegare i nostri stessi fratelli in mare.
Confido che rispetteremo un po’ di più casa nostra: questo benedetto pianeta.
Confido nel cambiamento di molti valori e priorità.
Confido che la solitudine senza contatti ci farà spegnere poi, quella digitale.
Confido che avremmo voglia di stare davvero assieme.
Confido in un altro e più esteso senso della parola rispetto nel futuro.
Ora siano rimessi a noi i nostri debiti.
Tutto questo succederà qualche settimana dopo il nostro rientro e ora chiacchieriamo allegri io e Giacomo come se niente fosse. Come se l’indomani sarà solo l’inizio dell’ennesima settimana. Parliamo beati di musica e viaggi. Prima di montare in auto e scendere a valle incontro a questo immediato futuro.
Padova, pandemia Covid 19, marzo-aprile 2020
Bellissimo racconto, vivere il presente e il senso di comunità mi appartengono e mi rendo conto che spesso e volentieri si riescono a vivere solo in certe situazioni (montagna, cammini) sarebbe bello fermarci tutti un attimo a pensare e capire che forse bisognerebbe vivere sempre così con un occhio di riguardo verso il prossimo e senza filtri (telefonini, PC e ecc.) per goderci l’attimo.
A me ultimamente piace dire: “l’unico tempo che conta è ADESSO”.
Bravo Jussi
Grazie…
Un racconto articolato nella dimensione temporale, riesce a farti viaggiare nel tempo e nella distanza.
A tratti mi sembra di sentire l’alternarsi del rumore al silenzio raccontati.
Si percepisce la rabbia, la serenità, la speranza, la fatica…
Un lavoro ben fatto!
Troppo generosa.. grazie