Racconto

#6
I CRISTALLI DELL’ALORAP

La lezione di quella mattina sarebbe rimasta impressa a lungo nella mia mente.

testo e illustrazioni di Francesco Cestari  / Trento

Il monte Alorap
18/11/2021
7 min

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I cristalli dell’Alorap

di Francesco Cestari

La lezione di quella mattina sarebbe rimasta impressa a lungo nella mia mente. Sveglio da pochi istanti, i ricordi della notte appena trascorsa iniziavano a riaffiorare gradualmente davanti agli occhi increduli.

La prima immagine ad emergere dal torpore notturno era quella di un viso conosciuto qualche anno prima. Ci trovavamo dentro una yurta, disposti in cerchio attorno ad un piccolo braciere. La fredda aria esterna, tagliente come una lama, si era fatta largo tra le fessure della tenda e stava dando corpo ai fumi caldi del tè, che sorseggiavamo tranquillamente, in quella che era, a tutti gli effetti, una cerimonia. Prima di coricarci, Oili Griv, il capo delle guide che ci avrebbero accompagnato il giorno successivo, con il suo naso un po’ schiacciato, gli occhi semichiusi e la voce profonda, volle raccontarci una leggenda del luogo.

Dacché se ne abbia ricordo, il racconto veniva tramandato oralmente, di generazione in generazione, ed era il più conosciuto tra gli abitanti che popolavano le pendici della più alta catena montuosa del mondo. La storia narrava del richiamo della montagna, avvenuto in sogno all’eroe della tradizione locale. A fine racconto, Oili volle trattenersi con noi più a lungo di quanto avesse fatto le altre sere. «Con il tempo» iniziò a dire la guida «voi europei avete dimenticato cosa significa sognare. Andate dicendo che sognate ad occhi aperti, eppure, non vedete nulla». Fece una pausa. Poi continuò, «nulla di ciò che conta». Non capivo perché Oili mi stesse dicendo questo, e lo interpretai inizialmente come un gesto di stizza, uno sfogo derivante dal vedere la grande disparità tra i nostri stili di vita. «Chi scala una montagna, ricordati bene, non la scala mai da solo. Nemmeno il più solitario dei vostri alpinisti è mai stato solo. Qui ne abbiamo visti passare tanti, sai, sono sempre stati accompagnati». D’un tratto lo interruppi, «dalle guide locali?» domandai. Volevo capire dove volesse andare a parare con quel suo strano discorso. «No, dagli spiriti delle loro tante vite» ricominciò «e non solo quelle passate o future. La reincarnazione in cui crede la nostra gente è quella della nuova vita che puoi vivere già oggi. Per reincarnarsi, però, è necessario desiderarlo, veramente». Dopodiché, calò il silenzio e ci ritirammo ognuno nel suo giaciglio.

Tutto ciò mi lasciò confuso e quella notte non dormii tanto bene. Qualche anno più tardi, in una notte altrettanto tormentata, una di quelle notti a cavallo tra sogno e realtà, nel limbo tra visione e percezione, venne a visitarmi quel ricordo che, ormai, credevo svanito. Sfinito dal continuo e inutile divincolarmi tra le lenzuola, mi abbandonai infine al sonno. Fu in quel momento che l’Alorap iniziò il suo canto. Le sue viscere mi stavano chiamando.

Con la sua altezza indecifrabile, l’Alorap è un monte piccolo per molti, alto per pochi, ma irraggiungibile per tutti. L’esplorazione di terre così alte esce da ogni possibile classificazione. Ognuno degli alpinisti che prova a raggiungerne la vetta, s’addentra in una dimensione personale, difficilmente visibile agli altri. Un mondo del quale non si può misurare il perimetro. Solitamente, una tale avventura, così unica nel suo genere, piena di insidie e difficoltà, raccoglierebbe subito l’interesse di intere schiere di alpinisti da tutto il mondo. Eppure, le sue pendici restano perlopiù popolate da turisti svogliati, che si accontentano di un semplice selfie tra le faggete colorate che d’autunno ricamano i boschi dei suoi fianchi più bassi. Addirittura, molti alpinisti lo considerano un monte inutile, da visitare unicamente al fine di mantenere contatto con quella parte di società, che è conveniente frequentare per fare rete e trovare finanziamenti a sostegno di nuove imprese.

“Chi scala una montagna, ricordati bene, non la scala mai da solo. Nemmeno il più solitario dei vostri alpinisti è mai stato solo.“

L’incontro

Capita però, a volte, che attorno all’Alorap il cielo sia particolarmente terso. In queste rare occasioni è possibile intravedere un luccichio molto al di sopra del profilo disegnato dalle sue rocce. Solo allora, l’Alorap si mostra per quello che è veramente. Una montagna di cristallo che riflette il cielo circostante e, per questo motivo, impossibile da vedere. Tra i pochi che hanno creduto e tentato di esplorarlo, si narra che l’Alorap sia fatto per gran parte di vuoto, di silenzio, e al tempo stesso di urla, rimbombi e guaiti.

Al di sopra di una certa quota, infatti, alcune tra le cosiddette terre alte diventano terre profonde. Questo è il caso dell’Alorap, di cui non si scala più la parete esterna, bensì quella strapiombante, interna alla montagna.

Mi ritrovai così, tutto d’un tratto, avvolto in un silenzio che squarcia i timpani. Non saprei descrivere come ci arrivai, si sa, i sogni sono capaci di voli pindarici, certo è che mi trovavo dentro l’Alorap. Ero confuso da quello stridore persistente alternato ai silenzi improvvisi che mi circondavano. Tuttavia, sentivo un montante senso d’urgenza che mi spingeva a raggiungere la cima. Guardandomi attorno, notavo tante figure, che ad un’analisi più attenta mi sembrava di riconoscere. Come maschere, portavano tutte la mia faccia e si comportavano in modo diverso l’una dall’altra. C’era chi andava di corsa, chi senza tecnica, chi seguendo un percorso casuale e chi, invece, restava fermo come accecato da una luce che solo lui vedeva. Scrutando con attenzione, potevo riconoscere in alcuni il volto di un me più giovane, con la fronte corrucciata e lo sguardo determinato. Poco più in là, invece, c’era una mia versione invecchiata, calma nei modi, quasi indolenzita. Man mano che l’osservazione continuava, potevo riconoscere alcuni comportamenti tipici dell’essere umano e che, solitamente, attribuivo ad altri individui lontani dal mio carattere. Mi colpì particolarmente vedere il mio viso associato a quei modi d’essere che ancora oggi faccio più fatica a digerire. Eppure ero lì ed eravamo in tanti, tutti con lo stesso viso. Mi chiedevo, perché?

La sensazione di urgenza si stava facendo sempre più forte, e restare fermo iniziava a provocare in me un male crescente. La mia attenzione veniva ora attratta, come da una calamita, dalla strana composizione delle pareti. Sembrava un mondo al contrario. Quasi in trasparenza, via via che salivo, riuscivo ad intravedere attraverso la roccia, il cristallo, e al di là di quello, il cielo. Laddove all’esterno c’erano pendii scoscesi e spalloni appoggiati, all’interno si mostravano tetti strapiombanti di insormontabili difficoltà. Allo stesso modo, pareti aggettanti all’esterno, internamente alla montagna di cristallo diventavano morbidi dislivelli. I diedri erano spigoli, le pance rientranze, e viceversa. Solo i muri perfettamente verticali rimanevano immutati, quasi ad indicare la direzione da seguire.

Mentre procedevo, cautamente, in quella salita che mi pareva interminabile, mi rendevo conto di non essere ancora uscito dal cono d’ombra in cui mi trovavo sin dal mio arrivo. Eppure, attraverso le pareti vitree luce ne passava in abbondanza, tanto da illuminare tutte le vallate interne al monte. Fu solo allora, che mi accorsi di aver preso come riferimento per la mia salita una sagoma scura all’orizzonte, che dapprima credevo un sicuro sperone di roccia, ma che proiettava la sua ombra su tutto il sentiero che avrei percorso. Un alito di vento freddo mi risalì la schiena. Vacillai. Sulla destra v’era il vuoto della valle, con il suo torrente a disegnare il fondo come una spina dorsale al contrario. Sulla sinistra gli spigoli rocciosi che mi premevano allo scoperto.

“La vetta dell’Alorap rimaneva ancora in alto, lontana ma ben visibile. Attorno a me animali strani, che subito mi parvero camosci.‟

L’ombra

Specchiarsi nell’altro

Il freddo, ormai, mordeva più forte ad ogni passo. Per poter procedere e uscire dalla corrente d’aria, dovevo cercare di abbandonare il cono d’ombra e quindi il sentiero battuto, a tutti i costi. Con le mani irrigidite e le articolazioni che a fatica rispondevano agli ordini che cercavo, disperatamente, di impartire loro, mossi il passo successivo fuori dalla traccia. La paura di venire risucchiato dal vuoto interno della montagna era forte, e mi sembrava di venire sopraffatto dall’ignoto. Fuori dall’ombra, mi sentivo esposto al pericolo di un mondo sconosciuto, pensavo di non poter più procedere e al contempo l’idea di rimanere lì, per sempre, mi atterriva.

Ora, con un piede ben piazzato sul sentiero e uno al di fuori, in cerca d’un appoggio sicuro, mantenere l’equilibrio non era affatto facile. Quell’acrobazia durò un istante, che ancora oggi al pensarci mi pare non passare più. Com’era prevedibile, finii per ruzzolare rovinosamente fuori dal sentiero perdendo l’orientamento. Dove mi trovavo, ancora non era ben chiaro. Il freddo era passato e lasciava lentamente spazio ad un nuovo calore che sorgeva da dentro.

Nella caduta, ricordo di essermi aggrappato a qualche zolla d’erba, tanto che ora mi trovavo su un versante più centrale rispetto alla vallata maggiore. La vetta dell’Alorap rimaneva ancora in alto, lontana ma ben visibile. Attorno a me, animali strani, che subito mi parvero camosci, si rincorrevano sul ripido pendio e dentro di me cresceva un gran desiderio di inseguirli fino in cima.

Rialzandomi, mi volsi indietro per capire meglio dove fossi atterrato. La sorpresa che ne seguì mi lasciò sbalordito. Sulla grande cengia più in basso, riconobbi la sagoma che prima seguivo, ma che ora pareva non proiettare più alcuna ombra. Decisi di ridiscendere e avvicinarmi così a quella sagoma, benché la luce del sole cominciasse già ad affievolirsi. Più mi avvicinavo, più si faceva largo, tra le tante difese che cercavo di frapporre, l’idea di conoscere già quella sagoma che prima seguivo e a cui ora stavo andando incontro. A stento trovai la forza necessaria di guardare negli occhi quella figura. Sapevo di conoscerla ad occhi chiusi, e ben potrei narrare lo spiegarsi del suo viso in ogni singola ruga, millimetro dopo millimetro, tra barba, spigoli e rientranze. Davanti a quel corpo, ormai spoglio del suo peso simbolico, non restava che mantenere fisso lo sguardo e aprire il cuore. Pensavo alla vetta del Monte Alorap ancora lontana e il silenzio, che fino ad allora assordava la valle, diminuì di frequenza e lasciò spazio a suoni più chiari, più lievi. Fissavo quella sagoma immobile, silenziosa, e un sentimento malinconico mi pervase. Sentivo di dover comunicare qualcosa senza però riuscirci. Affidai così tutto il peso di quell’incontro allo sguardo, restando in contemplazione, e, con un gesto attento, sfiorai la sua mano per ringraziarlo e salutarlo prima di riprendere fiato e correre più in alto sui pendii.

Fu allora che mi svegliai.

Questa storia partecipa al BC2021.
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Francesco Cestari

Francesco Cestari

Nato a Trento in una famiglia appassionata di montagna, fin da giovanissimo entra in contatto con l’ambiente alpino. Curioso per vocazione e sempre alla ricerca di espandere i propri orizzonti. Lavoro nel mondo della finanza e coltivo la passione per le arti.


Il mio blog | Altitudini.it è mia rivista digitale. Mi piace Altitudini perché ritengo importante dare spazio a una pluralità di narrative che circonda il mondo della montagna. Le persone sono innanzitutto fatte di storie, ognuna diversa dall'altra. Vale la pena renderci esploratori del vissuto e dell'immaginario disponibile in alta quota.
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