#11 – Alta Valsesia
L’altro Manolo e la Dad
È domenica mattina, Manolo sta chino, martellando una grossa pietra che dovrà entrare tra altre per chiudere un breve tratto di sentiero appena dietro la sua casa, in una delle frazioni più assolate dell’Alta Valsesia. Ha movimenti che si accostano uno all’altro con eleganza. La sua è un’arte antica quanto difficile e il cielo lo ringrazia con un azzurro limpido. Al rintocco delle dodici ci sediamo nel giardino di un comune amico.
Manolo ci raggiunge poco dopo. Ha pulito le mani alla fontana, gli occhiali nella camicia di flanella e sistemandosi il vecchio berretto, si siede con noi. Il richiamo di un rosè del Garda e la voglia di riposarsi un poco lo rendono loquace.
Manolo ha settanta e più anni e la sua vita è un’avventura. Il suo non è un soprannome. Suo padre, ingegnere, andò in Argentina subito dopo la seconda guerra mondiale e lì oltre al lavoro, «Un doppio lavoro, da segretario comunale e da costruttore di capannoni», trovò l’amore. Manolo, Manolito è nato a Buenos Aires.
Lui laggiù e i suoi fratelli in Valsesia quando, fatta un poco di fortuna nella pampas, la famiglia ritornò e riprese a gestire l’albergo del nonno sistemando un poco meglio le stanze e la vecchia cucina.
Un albergo grande in un periodo dove le vacanze, quelle per tutti, quelle della Fiat e della Michelin, riempivano ogni stanza di alpinisti ciabattoni. Tempo per guardare i figli non ce n’era molto. Si lavorava il doppio di quando si stava nell’altro emisfero.
«In estate si spariva dalla vista del papà e della mamma e via, liberi e con poche regole. Tornare a casa prima del buio e non farsi male». E in autunno, quando l’albergo, il paese, la valle si svuotava delle voci troppo alte, delle cinquecento con i cuscini ad uncinetto sulla cappelliera, dei passi affrettati nelle strette vie ciottolate, ecco, allora si andava a scuola.
I più piccoli, con le loro braghette sopra le ginocchia alle elementari, «Quasi nessuno andava oltre, parecchi ci rimanevano di piú che dopo la quinta c’era anche la sesta e quelli sì che erano dei bulli: ti prendevano la penna e facendola cadere sul pavimento la infilzavano come una piccola spada nel legno. Eh, poi non ci riuscivi più a scrivere». Quelli della sesta erano proprio asini, prima di tutto ne erano convinte le maestre che ribadivano il concetto con sberle da rintronare, appunto, anche un asino di quelli a quattro zampe.