ci riporta[1] in una montagna lontana dal mainstream, drammatica e leggera allo stesso tempo, una montagna nostrana, diversa da quella tipica che tanti libri dalle copertine con i bei acquerelli ci fanno intendere.
La Cena dei Coscritti è, per giungere subito al centro di questo contributo, un episodio montano dei Soliti Ignoti[2], quello di Monicelli per favore, messo in scena sul palco di uno dei piccoli teatri della Società del Mutuo Soccorso, che nei paesi dove verosimilmente potrebbe svolgersi la storia di Michele sono ancora degli splendidi esempi di architettura e cultura alpina, da una compagnia teatrale amatoriale. Una di quelle dove gli attori recitando fanno venire a galla loro stessi piuttosto che i personaggi che intendono rappresentare. Già, perché nella Cena i personaggi e la storia sono sì inventati e, un poco, ci fanno sorridere ma intravedi nel libro di Marziani qualcosa di ben più reale e preoccupante: lo sfanculamento delle terre alte. Nello specifico del (quasi) inventato paese di Riva Cannobbia.
Pur essendo un romanzo che non intimorisce per il numero di pagine sono tante le figure che appaiono sul palcoscenico. Sono tutte illuminate da dietro e, per questo, le scopriamo pagina dopo pagina. Sarà Piero (Pino)[3] Capaldi, ancora un bell’uomo che
“dopo i settanta ha cominciato a sentirsi dire che sembrava più giovane, ironia della sorte, il ritratto sputato di Jack London, per via del ciuffo”,
ad accompagnarci nella battaglia ecologica (fallimentare come sembrano esserlo anche quelle più robuste del Friday for Future) contro una inutile quanto incoerente diga e poi, a fargli compagnia, la[4] Mara Bistefani, sua moglie.
La più bella del paese. E anche la più intelligente. E Mario, figlio che ha studiato ma per niente, ingegnere andato a Milano, all’Ortica sposando la Sonia, ingegnera anche lei, e dis-integrato nel contesto di Riva; Josko Vukovic, ex-guardiapesca bosniaco sul fiume Una e jaadista a sua insaputa; Girolamo Sparvieri, Gino, il bibliotecario, ex sessantottino puntiglioso e noiosetto (parole sue) e suo fratello Medardo, avvocato di grido; l’Ernesto marito della Anna, seconda figlia di Pino; tutti i Baldo, figli del farmacista del paese, il Teobaldo Rosso che di rosso c’ha solo il nome e molti altri ancora che daranno al libro una forma corale perfetta.
La storia ci dice di tre anziani, tre coscritti del ‘42, appunto il Pino, Gino e Josko che, pur refrattari alle sirene dell’ecologia combattente, si mettono contro al progresso che avanza perché
“A volte avanza anche la trippa, quando non è buona”
e cercano, tra bevute colossali e proclami di lotta anche poetici, di fermare la costruzione di una piccola quanto orribile diga green[5] sul cristallino torrente che attraversa il paese. Non ce la faranno, ma questo poco importa perché con questo piccolo fiammifero acceso Marziani, il Michele, dà fuoco ad una realtà che abbiamo lungamente rimosso e sostituito ma che Nuto Revelli aveva profetizzato con il suo straordinario magnetofono:
“muoiono così i nostri villaggi, muoiono male.”