Nel 2013, a Strömsund, nella Lapponia meridionale, partecipai alla mia prima gara di lunga distanza non-stop, l’Amundsenrace. L’avevo scelta non con criteri razionali ma istintivamente perché mi affascinava il nome della competizione che rende omaggio al grande esploratore norvegese Road Amundsen che nel 1911 raggiunse il Polo Sud grazie al contributo determinante dei cani da slitta. Di queste gare sapevo solo che, a differenza delle stage race che sono delle gare a tappe, si viaggia dall’inizio alla fine per più giorni in autosufficienza, che ci sono lungo il percorso dei punti di sosta chiamati check point dove alimentare e far riposare i cani, ma poco più. In montagna avevo fatto esperienze di ogni tipo, salite invernali con un tempo infame, bivacchi imprevisti, sfacchinate faticosissime e per questo non avevo timore dell’impegno fisico. Tuttavia, i 320 km dell’Amundsenrace furono devastanti sia per me che per i cani, arrivai al traguardo che letteralmente non stavo in piedi e ci misi qualche giorno a riprendermi del tutto. Ecco, se ero alla ricerca di uno sport tranquillo e poco faticoso per tenermi attivo nell’età avanzata, l’avevo trovato. Lì capii che in questo tipo di gare conta sì la preparazione fisica del musher e dei cani ma che altrettanto importante è l’aspetto gestionale del team dove l’alimentazione dei cani e di se stessi e la gestione dei tempi di riposo e di attività hanno un ruolo determinante.
Tuttavia vissi anche dei momenti indimenticabili. Ce n’è uno speciale che generalmente si vive alla prima gara di lunga distanza quando, non si sa per quale misteriosa ragione, i cani capiscono che il traguardo è vicino e improvvisamente ritrovano ritmo e nuove energie. E’ il momento in cui si capisce in modo chiaro e inequivocabile che si arriverà alla fine. Non è in prossimità del traguardo, ma ben più distante, quando mancano ancora molti chilometri, quando magari si è ancora alle prese con difficoltà di vario genere (stanchezza, dubbi, cani che sembrano non averne più….) e nonostante ciò, improvvisamente, si acquisisce la consapevolezza di avercela fatta. In quel momento, che è un momento magico e irripetibile, vengono le lacrime agli occhi e tutti i sacrifici, i lunghi allenamenti, le rinunce, acquistano un senso compiuto e così si chiude il cerchio.
Lo sleddog di distanza è uno sport totalizzante che condiziona la vita.
Quando iniziai a praticare questa attività il mio sogno era di partecipare a una delle grandi gare di lunga distanza del Nord-Europa. Tuttavia, dopo aver concluso l’Amundsenrace, nonostante le difficoltà, mi fu chiaro che quello sarebbe stato solo l’inizio di un lungo percorso. Pian piano i sogni si trasformarono in obiettivi. Da allora cominciai a focalizzarmi seriamente su questo tipo di gare cercando di migliorare soprattutto la parte gestionale e cioè la distribuzione delle energie, l’alimentazione dei cani, il rapporto tra movimento e riposo. Oggi posso dire di avere un team affidabile che mi permette di vivere queste esperienze in modo consapevole senza spingermi ai limiti delle capacità psico-fisiche mie e soprattutto dei miei cani. Lo sleddog di distanza è uno sport totalizzante che condiziona la vita. Per una gara che si conclude in 3-4 giorni c’è dietro un lavoro enorme che dura tutto l’anno, giorno dopo giorno, fatto di allenamenti, di cure ai cani, di gioie e di dolori, dove i cani sono al centro di tutto e condizionano qualsiasi aspetto della vita. Questo significa impegno, fatica, rinunce, viaggi, spese.
Ciao Anselmo,
leggo ora che il tuo spirito avventuriero, il tuo legame indissolubile con il mondo naturale continua ad essere forte. Ne sono felice per te. Saluta i boschi scandinavi anche per me non appena ci torni.
Manu
Ciao Anselmo,
pensi di rendere pubblico il docu-film “Old Tjikko Project” (ad esempio mettendolo su youtube)?