Fabio Scuri
Sono un ragazzo di 27 anni della provincia di Bergamo, in alta Valle Brembana. Nel tempo libero mi piace percorrere le montagne della zona, fotografare gli scorci e scoprire le storie che celano.
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testo e foto di Fabio Scuri / Bergamo
È già pomeriggio inoltrato. Rimangono poche ore di luce, ma il bisogno di immergermi nella natura è forte. Decido per un sentiero vicino casa che da 700 metri mi porta a quota 1800 metri passando per alti e profumati boschi di conifere, freschi torrenti e i morbidi pascoli di montagna dell’ Alta Valle Brembana in provincia di Bergamo.
Infilo le scarpe da trekking, controllo la batteria della macchina fotografica e via verso la salita.
Non percorro questa zona da un po’ di tempo. Sono talmente abituato a cercare nuove cime che quasi ho rimosso la bellezza e le sensazioni che questi boschi sanno regalare. Mi mancano e un lieve sorriso si disegna sul volto.
Dopo qualche minuto di cammino noto sul sentiero un’insolita quantità di aghi di abete. Quasi un tappeto verde opaco. Alzo lo sguardo da terra e molti rami sopra di me sono spogli. Macchie marroni dipingono le chiome degli abeti rossi, alberi sempreverdi. Anche la corteccia si stacca a pezzi. Desolato mi trovo in un bosco di scheletri. Fragili tronchi di legno spogliati della loro pelle, foglie e corteccia, e condotti alla morte. In questo anno così particolare persino gli abeti combattono contro la malattia. Il loro virus si chiama Bostrico Tipografo e è un insetto che prolifera sotto la loro scorza. Le larve si nutrono del legno fino a scavare in intricato disegno di gallerie, sempre tra il tronco e la corteccia.
Da qui il nome “tipografo” attribuito al parassita. Imprime sull’albero i segni del suo passaggio: un marchio di condanna. La pianta, non più in grado di portare la linfa dalle radici ai rami, perde le foglie fino a seccare. È un bosco pronto a chiudere un lungo capitolo della sua storia. Tronchi di abeti quasi secolari, privi del sostegno delle radici, cadranno sotto la forza della neve e del vento. Anche il sentiero verrà divelto e intralciato. La soluzione per preservare le piante sane sarebbe abbatterli e asportarli ma questa è una zona impervia e lontana dalle strade raggiungibili con i mezzi meccanici. È probabile che l’area verrà abbandonata se non qualche intervento volontario per consentire di percorrere almeno il sentiero.
L’ultimo intervento dei boscaioli lo noto a quota 1200 metri. Ho raggiunto uno spiazzo sorretto da un muro a secco che si apre come una piccola terrazza sul versante. È il luogo dove la legna veniva accatastata. I boscaioli seguivano un ordine ben preciso per costruire una pila di tronchi a forma piramidale chiamata in dialetto bergamasco “Ol Poiàt”. La ricoprivano poi di fogliame e terra e all’interno accendevano il fuoco. Piccoli cunicoli consentivano all’aria di entrare; dalla quantità di ossigeno che raggiungeva il cuore bollente della catasta dipendeva l’intensità delle braci. La lenta combustione, sorvegliata giorno e notte, andava avanti per 20 giorni. Il risultato era la trasformazione del legno in carbone. L’ultimo Poiàt venne acceso, probabilmente 60-80 anni fa. Mi siedo qualche minuto al centro dello spazio su tronco secco. Ora è ricoperto di foglie colorate e rami secchi ma le tracce di questa antica attività sono ancora visibili. La terrà è di colore nero e qua e là ci sono dei minuscoli frammenti di legno carbonizzato.
Immagino la durezza della vita di quegli uomini. Interi giorni trascorsi a abbattere alberi, spaccare legna e curare che il fuoco non ardesse troppo velocemente. Bastava una distrazione e tutta la fatica sarebbe svanita in cenere. Era necessario monitorare continuamente la forza e la direzione del vento per dosare l’aria che alimentava la combustione.
Chissà se anche loro si sedevano qua e si concedevano il lusso di ammirare la calda luce del tramonto schermate dalle foglie degli alberi, come stavo facendo io. Non c’è tempo di approfondire il loro rapporto con la natura. Devo proseguire se voglio raggiungere la cima del monte.
L’ultima salita mi porta fuori dal bosco. Inizio a calpestare l’erba dei pascoli di montagna: un insieme di sottili fili verdi e fiori. Mi accoglie il suono dei campanacci. Un allevatore sta radunando la mandria di mucche per iniziare la mungitura serale. Lo saluto e mi fermo fuori dal recinto del bestiame. È una bella serata tiepida con il cielo terso. Solo qualche nuvole all’orizzonte.
Proseguo per prendere un altro sentiero e iniziare la discesa, prima che sia buio. Il percorso mi porta di fronte a uno sperone di roccia. Da bambino era una tappa fissa perché fra quelle rocce si diceva nidificasse l’aquila reale. Io ammetto di non averla mai vista e dubitavo che quella fosse la sua dimora. Certo, sicuramente non stava lì ferma a attendere le visite. Per convincermi mi raccontavano allora le avventure di tre coraggiosi e spavaldi giovani che li cercarono di catturare alcuni aquilotti.
Erano gli anni ’40 e in quel tempo l’animale non era protetto. Erano d’accordo con un parco faunistico di Milano che ambiva esporre al pubblico esemplari così preziosi. Per tentare l’impresa i giovani montarono un filo d’acciaio, quello che utilizzavano per mandare a valle il legname, dallo sperone di roccia alla parete opposta, poco sopra l’antro con il nido. Il filo si tendeva nel vuoto per circa 70 m. 50 m sotto un piccolo torrente scorreva fra le rocce della valle. Il filo doveva permettere al giovane più piccolo e leggero di scorrere, legato a una girella, fino al nido a prelevare i piccoli. L’amico più forte e robusto, invece, teneva tesa una fune legata alla vita dell’acrobata per dosare la velocità di scorrimento e per riportarlo indietro con il bottino. Il terzo invece aveva una mira infallibile, il migliore a sparare con il fucile. Il suo compito era di stare appostato, pronto a colpire mamma aquila qualora fosse tornata al nido prima del previsto. D’istinto avrebbe cercato di difendere i suoi pulcini attaccando con becco e artigli affilati l’invasore sospeso. Era un’impresa davvero spericolata.
La storia prosegue con i tre giovani in un ambiente decisamente poco montano. Si trovano alla Stazione Centrale di Milano e sono appena scesi dal treno Bergamo-Milano. Il ragazzo, quello forte e robusto, in mano regge una grande gabbia coperta da un telo bianco, un vecchio lenzuolo. Dentro, alcune creature, di tanto in tanto, di dibattono e emettono versi striduli. Durante il viaggio in treno i due pulcini hanno tenuto sull’attenti le due signore, elegantemente vestite, che, appena giunti al capolinea, si sono alzate e precipitate giù dal treno lontano da quei tre bizzarri individui. Veloci come aquile! Rimpiangevano l’idea di essersi sedute proprio accanto a loro e allo strano bagaglio. Quello che successo dopo agli aquilotti, lontano dal loro ambiente natale, non si sa. Le tante versioni di questa storia non hanno tramandato ulteriori dettagli.
Mentre ripercorro i ricordi scatto una fotografia al giglio martagone cresciuto ai piedi di quello sperone. Prima di ripartire osservo per qualche secondo i suoi petali colore rosa antico e puntinato di marrone e gli stami carichi di polline.
L’ultima tappa della mia camminata passa per un altro luogo evocativo del passato della zona. È una cava di ferro in funzione durante il Medioevo. Si trova in una radura vicino a un torrente. Difficilmente la si vede dal sentiero, bisogna deviare e risalire un po’ il bosco. Al riparo dei rami di una betulla e circondato da rododendri si apre l’ingresso della cava. Un tempo era un lungo e buio tunnel che portava nelle profondità della montagna. Oggi è colmo d’acqua. Nel corso dei secoli le falde sotterranee hanno alimentato l’apertura fino a riempirla completamente. La mancanza di luce non permette di vedere oltre la riva. Solo qualche anfibio si tuffa nell’acqua e esplora la cavità. Non ci sono documenti precisi riguardanti il luogo. La zona era ricca di minerali, fra cui ferro e rame. Numerose cave sono state aperte intorno all’anno 1000 e rimaste attive per 5 secoli circa. La roccia estratta veniva portata poco più a valle dove un forno estraeva grossolanamente il minerale. Non volevano trasportare sulle spalle materiale senza valore. La lavorazione finale avveniva nelle fucine del fondovalle, circa 500 m più in basso.
Ormai il buio sta avanzando e è ora di ripartire e fare ritorno.
È un percorso vicino a casa immerso nei boschi fitto di alberi e di storie pronte a essere svelate. Lo conosco molto bene: sono i sentieri della mia infanzia dove ho imparato a camminare e andare in montagna. Adesso li ripercorre di rado ma ogni volta mi sorprendono e insegnano qualcosa di nuovo. La montagna è un ambiente meraviglioso, imprevedibile e sempre capace di incuriosire e sorprendere.
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foto:
1. Dettaglio di un abete rosso colpito dal bostrico: le tracce delle gallerie scavate dall’insetto. Disegno da cui deriva l’attributo “Tipografo”.
2. Lo spazio che in passato ospitava le cataste di legna destinate a diventare carbone.
3. Giglio martagone fotografato ai piedi dello sperone di roccia delle aquile.