Reportage

#47 PER UN BIVACCO DI MONTAGNA

testo e foto di Marco Baglio  / Rozzano (MI)

22/12/2020
7 min
Il Bando del BC20

Per un bivacco di montagna

di Marco Baglio

Il bivacco Regondi è là, nell’alta Valpelline, a 2560 metri di quota, ai piedi della catena del Morion, di fronte ai 3519 metri del Mont Gelè.

Ci sono sempre salito da Glacier, frazione sotto la Conca di By quasi costantemente all’ombra, come a espiare un’arcana maledizione impressa fin nella toponomastica. Tra i larici il sentiero taglia fiato e gambe, imponendo senza ossequi un pedaggio per l’accesso alla bellezza delle terre alte, quindi entra nel canalone della Gaula e ne contorna la parete rocciosa, spruzzata da sorgive d’acqua che in inverno si mutano in arabeschi ghiacciati. Sulla sinistra si trova l’oratorio dedicato a Notre Dame de la Gaula, scuro antro adibito a cappellina votiva. Al visitatore che si concede il tempo di fermarsi offre un recesso di intimità: un crocifisso, una statuetta della Vergine, sbiaditi fiori di plastica, qualche immaginetta sacra. Dal pietoso corredo di fotografie, ex voto e foglietti posti sulla pietra del ripiano sale perpetua una preghiera. Brandelli di carta impregnati di umidità lasciano appena scorgere richieste di suffragi, dati anagrafici, frammenti di storie: di vivi o di morti? Chi li ha deposti qui e con quale speranza? Giusto il tempo di un pensiero o di una preghiera, poi la luce richiama all’aperto e invita a riprendere la salita.

Attraverso una valle erbosa il sentiero costeggia il torrente che scende dal Plan du Breuil, punta a una sella e conduce all’Alpe le Place. Baite diroccate e soffocate dalle ortiche dicono una vita d’alpeggio di tempi andati: dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley? La domanda si perde nell’anfiteatro dei monti di fronte, dove il vento corre sbarazzino sui prati, si impenna lungo la parete nord del Gelè, scivola sulla virgola della cresta nevosa del Gran Combin. Alzando lo sguardo verso est, sotto il Morion appare il bivacco Regondi. Non è lontano, i ripidi zig-zag del sentiero permettono di acquistare velocemente quota, sino al pianoro con il lago dell’Incliousa e quindi, quasi inaspettatamente, alla meta dell’escursione: tana!

Il bivacco è dedicato alla memoria dell’alpinista Nino Regondi, deceduto in un incidente stradale, e di Pietro Gavazzi, presidente della sezione di Desio del Cai, proprietaria della bella costruzione in legno e lamiera inaugurata nel 1995 e dotata di 16 posti letto. Offre ospitalità a chi intende salire a piedi o con gli sci sul ghiacciaio del Gelè o si accontenta di raggiungerne il colle per poi traversare sino al rifugio Crête Sèche, a ridosso della bastionata di spigoli e punte dell’Aroletta.

Niente di tutto ciò. Il vero bivacco Regondi si trova 1200 metri più in basso, a Ollomont, solitaria botte di lamiera dalla rossa vernice ormai scrostata, dopo anni di glorioso servizio sotto la neve, le tempeste, l’accecante luce del sole. Fuori dal paese, la struttura è confinata tra la palestra di arrampicata e i prati, in un limbo di indifferenza e anonimato: solo le guide alpine ne conoscono la storia, solo gli amici di un tempo passandole accanto provano il brivido del riconoscimento. Il bivacco è chiuso, gli hanno tolto la targa in ferro con quota altimetrica e intitolazione a Nino Regondi affissa nel 1952, quando venne posizionato sulla spianata al limitare della morena ghiacciata: la capanna sull’albero, la casa degli hobbit, una burla di abitazione con sei posti letto. Non ho voluto aprirlo, per non scoprirlo vuoto e nel fondato timore di non riconoscerlo più: come un’aula di scuola senza studenti, la casa di una nonna all’indomani della sua morte.

Sono salito al Regondi per la prima volta nell’estate del 1986, insieme a mio padre e a mia sorella. L’impegno della camminata venne ricompensato dal mondo di meraviglie che ci si dischiuse appena ne aprimmo a fatica la cigolante porta: un forziere dei pirati, la soffitta di cianfrusaglie che non ho mai avuto. Perché un bivacco non è un semplice rifugio, è innanzitutto un azzardo di spazio, un monito di essenzialità: poche cuccette e puzzolenti coperte, un tavolaccio di legno pieghevole, traballanti mensole, tutto studiato per conquistare centimetri e resistere all’ingiuria delle altezze. Un bivacco è un ricovero proletario: veste abiti feriali, è incustodito ma sempre aperto, può subire la triste ventura del figlio diseredato, quando si decide di costruirgli nelle vicinanze un più capiente e moderno rifugio.

Un bivacco è come le tasche di Eta Beta, da cui compaiono per misteriosa evocazione, basta saper cercare, mozziconi di candela e fiammiferi, zollette di zucchero, forchette e cucchiai, penne per scrivere, qualche padella, qualche bicchiere, una bottiglia di vetro, un brandello di libro, un calzettone lercio che occhieggia da sotto il letto, bustine di thè, firme incise sulle panche in legno. Tutto scompagnato e in apparente abbandono: il regno dei topi, il mercatino delle pulci. Pochi moniti tentano di regolamentare la condotta dell’ospite ideale: “riportate i vostri rifiuti a valle”, “vietato fumare”, “ricordatevi di chiudere il bivacco”. Se dietro alla porta è infilata una scopa, è più per tributo alla decenza che per effettiva possibilità di porre ordine al caos. Unico depositario della memoria del luogo, il “Libro del rifugio”.

Qualche volta si tratta di un quaderno o di una vecchia agenda, più spesso è il volumone blu del Club Alpino Italiano, con l’araldico emblema dell’aquila sulla copertina: la lotta con l’alpe, bella come una fede. Al pari di un registro scolastico invita alla catalogazione documentaria, all’asetticità della scheda informativa da compilare puntigliosamente in tutte le sue voci: data di arrivo e di partenza, cognome e nome, società alpinistica di appartenenza, destinazione, itinerario prescelto. Ma non di rado l’impulso a trasgredire, la ricerca di un diversivo per le ore di forzata inattività, una certa maleducazione lo trasformano nel diario di uno studente annoiato: ecco allora comparirvi disegni di bambini, battute sarcastiche sui compagni di gita, apprezzamenti da caserma sul genere femminile compensati da commoventi ricordi di anniversari (“oggi è il nostro ventesimo anniversario di nozze”, “sono risalito qui dopo trent’anni”), proclami sportivi e politici, vere e proprie micce che accendono il fuoco di fila delle risposte di segno opposto. Alla voce “Destinazione” c’è sempre chi scrive “K2” o “Kilimangiaro”, sarà per la maschia consonanza della k.

Se però il bivacco si trova in prossimità delle montagne vere, quelle destinate a pochi eletti, le pagine di solito inibiscono l’irriverenza e diventano un brogliaccio di memorie, un portolano di innegabile utilità. I fogli, che nei luoghi più remoti impiegano magari più di un lustro per essere interamente compilati, ospitano ragguagli sullo stato delle vie e della chiodatura, sulle condizioni metereologiche, su quelle della montagna: un tratto di parete franata, un passaggio su ghiaccio vivo, la minaccia di un crepaccio. Una Bibbia laica, che per me ha sempre rappresentato una lettura irrinunciabile, se possibile da gustare di sera, con filologica perizia, perché dietro il catalogo di date, vie e tempi di salita si intravedono i volti. Ecco allora evocati i nomi di chi mi ha preceduto, i loro pensieri, le impressioni sull’ascensione fatta o interrotta o rimandata, gli aggettivi rutilanti e i punti esclamativi, che dicono di un tempo che per quasi tutti è stato tempo di grazia, manciata di ore destinate nella memoria a sbalzare fuori dalla dimensione dell’ordinario. Calligrafie e lingue diverse, l’emozione di vedere che anche un amico da tempo perso di vista è passato di lì, quella di ritrovare dopo qualche anno la tua firma di allora. Tutti qui per un pezzo di roccia, un lenzuolo di neve, il profilo di una cresta.

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Il Bivacco Regondi è stato il primo bivacco in cui ho pernottato. In quella giornata di agosto, fieri dei nostri calzoni alla zuava e dei calzettoni di lana, penetrammo nel sacrario con devozione, guardammo e toccammo tutto, firmammo il libro e anche se era pomeriggio accendemmo una candela per fotografie d’effetto. Ci ripromettemmo di tornare, ormai incantati dalle sirene e noncuranti delle perplessità alimentate a valle dall’igienica previdenza materna: come sarà dormire a quasi 2600 metri di quota? l’acqua dove si recupera? quanti viveri occorrerà portar su, in assenza di dotazione per cucinare? se ci si ritrova in numero eccedente la capienza massima quale codice stabilirà chi deve ridiscendere a valle?

Tornammo e fummo ricompensati: eravamo solo noi, noi e la montagna, noi e il silenzio, noi e le ombre che si allungarono e ci fecero riparare all’interno, noi e il vento e il cielo stellato. L’indomani salimmo sul Gelè: la discesa al lago Benseya, l’attraversamento della morena, finalmente il ghiacciaio. Sul tratto più ripido calzammo i ramponi e procedemmo slegati sin sotto le roccette finali. Qui, a un centinaio di metri dalla cima, mio padre si fermò: “vai su tu, io resto qui”. Pensavo che scherzasse, invece era serio e non ci fu modo di fargli cambiare idea: a nulla valse ripetergli che oramai eravamo su, che avrei rallentato il passo, che tutta la fatica sin lì fatta meritava la riscossione finale, che così si precludeva il panorama di vetta. “Vai su tu”. Una decisione incomprensibile: come fermarsi all’ultimo chilometro di una maratona, farsi sfilare davanti il campione di bici condotto da umile gregario sino al traguardo. Aveva ragione lui: saggezza è fermarsi un passo prima della vetta, perché tutto è già nello stupore degli spazi aperti, in un filo d’erba, nel colore dei fiori, senza per forza di cose trasformare la montagna in una contabilità di tempi e risultati. Chi lo dice che cima è solo il punto oltre il quale non si può più salire?

Quel bivacco e quella cima inaugurarono una sequenza di altri bivacchi e di altre cime, che oggi sgrano nella memoria come una litania di lode: il “Money” e le Punte Patrì; il “Rainetto” e il Petit Mont Blanc; il “Gontier” e il Gran Nomenon; il “Rossi-Volante” e la traversata dei Breithorn; il “Rivolta” e la Punta Tzan; il Federigo e il Mont’Emilius; l’“Oggioni” e il Disgrazia; il “Taveggia” e la Punta Kennedy: vette raggiunte o fallite, giornate di tempo clemente o bufere che hanno imposto la ritirata, quando il bivacco appare davvero come una scialuppa nel naufragio, la tana sotto le lenzuola che alla domenica mattina mi costruivo nel lettone dei grandi. È per la sua rude intimità che ho osato di più: il sacco a pelo sotto a un sasso, la tenda sul ghiacciaio.

È grazie al Regondi se ci sono state le notti sotto al Pizzo Cassandra e al Suretta, di fronte alla Becca di Monciair o alla Cima Fer. Notti spesso gelide e interminabili alla ricerca di una posizione comoda, ma che oggi nel ricordo brillano come quella volta che la stella del mattino mi abbagliò appena aprii gli occhi, dopo ore di lotta all’ombra dei Torrioni Magnaghi, in Grignetta.

Ora il bivacco Regondi è lì, relitto di nave, carcassa di capodoglio abbandonata sulla spiaggia. Non rimuovetelo, non smontatelo, trovate il modo di raccontarne la storia. Fatelo in nome di chi vi ha sostato il tempo necessario per chiamarlo casa, fatelo in nome di un ragazzo e di una candela, accesa in un giorno d’estate sul limitare dei suoi giorni.

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foto:
1. Al bivacco Regondi, 34 anni fa.

2. Alpe Le Place e Mont Gelè.
3. Il bivacco Regondi in pensione.

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Marco Baglio

Marco Baglio

Vivo in provincia di Milano e insegno lettere al liceo. Da sempre ammalato di montagna, amo camminare, viaggiare, perdermi nel bosco e soprattutto scalare. Appena posso mi rifugio nella mia casetta nella valle di Ollomont. Con gli amici di Teatro Libera Officina racconto i miei anni di alpinismo nello spettacolo teatrale “(Non) più oltre”.


Il mio blog | Ho da poco una pagina Facebook, ma preferisco eleggere altitudini.it come la mia rivista digitale. Ho scoperto altitudini.it grazie a planetmountain.com e mi è piaciuta molto l’idea di un luogo di incontro e di condivisione di storie, foto e suoni che possano durare nella volatile dimensione della rete.
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