Non ho mai fatto una ferrata in vita mia.
Ho indossato un imbrago durante un paio di uscite di arrampicata su parete artificiale in una vita precedente, poi lo ho venduto. Quello che ho ora è nuovo fiammante, se ne sta col casco e il dissipatore, nuovi pure quelli, dentro al mio bellissimo zaino blu, al quale ho staccato il cartellino del prezzo giusto ieri sera.
Guido piano sulle strade deserte verso Bolzano Bellunese, una frazione del capoluogo adagiata allo sbocco della valle dell’Ardo e vedo il blu del cielo illanguidire verso est e spegnere pian piano le stelle. Da un certo punto in avanti seguo le tabelle che già portano il nome del rifugio: mai stata qui, ma spero davvero manchi poco perché la strada è stretta, ripida e tortuosa e mi spaventa di più il fatto di trovare un mezzo in discesa che tutto il resto della giornata che mi attende. Arrivo dove termina l’asfalto, parcheggio e riemergo dall’apnea.
Oramai il cielo è azzurro anche sopra la mia testa, velato appena da sfilacciate nuvole rosa, e dopo essermi infilata gli scarponi, nuovi, scatto una foto così, tanto per testimoniare l’ora di partenza: sono le 5:30. Potrei dire in perfetto orario sulla tabella di marcia, se solo ne avessi una. In realtà, sebbene mi sia documentata ampiamente sui tempi di percorrenza, l’unico punto fermo che mi sono posta è essere fuori dai cavi prima che faccia buio.
Comunque, nello zaino, ho una frontale. Nuova.
Mi incammino, solitaria, su quella che inizialmente è una larga strada forestale in leggera salita. Parto piano, lo zaino pesa e comunque meglio dosare le energie. Mi lascio distrarre da qualsiasi cosa, una targa fissata alla roccia, una radice ritorta, un uccellino che cinguetta.
Sembra sia la prima volta che vado in montagna, invece è solo la prima volta dopo tanto, troppo tempo. Ma non ho scordato gli insegnamenti che i miei genitori mi hanno ripetuto fino alla noia quando da bambina mi hanno iniziato all’andar per monti: equipaggiamento adatto, meteo stabile, mai andare da soli. Essere ligia alle regole non è mai stato il mio forte, però…
Quasi d’improvviso la carrareccia si trasforma in sentiero il quale prosegue sinuoso, sospeso sopra il torrente Ardo che rumoreggia in basso.
L’arrivo al famigerato Ponte Mariano è una mezza delusione, non mi aspettavo certo uno sgraziato manufatto in cemento che pare messo lì a casaccio, tuttavia svolge egregiamente il suo lavoro e mi ritrovo così sulla destra orografica. Proseguo in salita nel bosco, incontro un paio di persone in discesa e un capriolo che mi osserva curioso prima di fuggire a grandi balzi tra il rumore di rami spezzati. Mi sento piena di energia, determinata, ma un fastidioso dolore al tallone di cui conosco bene il significato mi costringe ad uno stop. Vesciche, non per colpa degli scarponi nuovi ma dei calzini vecchi. Rimedio al danno con una serie di cerotti e riprendo il cammino, sperando che questo inconveniente non mi costringa ad una rinuncia che, per quanto messa in preventivo, mi darebbe parecchio dispiacere.
Una tabella annuncia l’inizio del “Calvario”, ultimo tratto in decisa salita prima di arrivare al rifugio. Uscendo dal bosco gli occhi, prima ancora che sulla costruzione dai balconi azzurri, si spalancano sulla verticalità di roccia grigia che la sovrasta. Mi fermo, cercando di indovinare la via di salita e mi pare impossibile che veramente si possa arrivare fino a lassù senza essere provetti scalatori.
Guadagno il rifugio e chiedo un caffè alla ragazza che sta dietro il minuscolo banco e che quasi mortificata mi dice che però è di moka, ignara di farmi un bellissimo regalo.
Mentre aspetto muovo i piedi negli scarponi per capire se l’avventura può continuare. Il corpo mi manda segnali positivi.
«Ho intenzione di fare le ferrate, se per le 10 di stasera non mi rivedi, al limite fa’ un fischio al soccorso alpino», butto là tra il serio e il faceto.
«Figurati, non ce ne sarà sicuramente bisogno!»
Le sorrido, pago ed esco.
Grazie Katia per il tuo racconto, mentre leggevo ero lì con te, con gli occhi, con il pensiero e con il cuore.