Sono le 3:00 Am e, nonostante siano diverse ore che provo ad addormentarmi, la mia mente non vuole saperne di dormire, continua a viaggiare, forse vuole solo assicurarsi che quello che sto vivendo non sia un sogno, che sia tutto reale.
Oppure non dormo semplicemente perché sono accovacciato sui sedili anteriori di un furgone, dentro un sacco a pelo, illuminato da una luna piena che stanotte sembra essere un faro.
Il tempo passa e i miei occhi si chiudono, in fondo non è così male dormire in questa strana posizione, bisogna solo ricordarsi di muovere ogni tanto le gambe, intrecciate tra la portiera e il volante, e fare attenzione all’ingombrante freno a mano quando ci si gira.
5:30, il giorno ha invaso il furgone senza timidezza, sembra che si siano svegliati anche Pietro e Giorgio, che invece sono coricati nella parte posteriore del furgone su un letto ad una piazza e mezzo improvvisato.
Dopo qualche indugio dovuto all’ora insolita, decidiamo che è ora di essere efficienti ed uscire dal nostro caldo rifugio.
Fuori l’aria è fresca, ma non aggressiva, con le gambe ancora intorpidite sistemo le ultime cose nello zaino, mentre Pietro prepara una ricca colazione.
Giorgio è ancora a letto e non sembra essere coerente con i suoi geni svizzeri, che in altre occasioni invece si presentano prepotentemente.
Dopo un veloce check del materiale, partiamo, sono le 7:15 e, nonostante mi abbiamo abbondantemente criticato per il mio abbigliamento poco alpinistico, sono eccitato per essere tornato a camminare in montagna.
Durante gli ultimi due mesi e mezzo, trascorsi dentro casa, tra quattro mura, una delle cose che mi rendeva allegro era ricordare questi momenti: gli scarponi che scrocchiano sulla ghiaia, l’erba che lascia la brina sui miei polpacci, potermi muovere liberamente in un luogo isolato dal mondo, in cui si può ancora sentire il profumo della terra umida.
Ed ora ci sono: sto camminando su in sentiero di montagna, in salita, e mentre il respiro si fa affannato, penso a quanto sia stupendo tutto quello che ho di fronte.
Davanti a me Giorgio tiene il passo con legate alle spalle due bambole di corda, alcuni cavalli ruminano indisturbati in questi sterminati prati, dietro di loro si erge il Paretone in tutta la sua imponenza e, se si osserva bene, si può vedere una casetta su uno sperone di roccia: è il rifugio Franchetti.
Dopo circa un’ora e mezzo di cammino, arriviamo al versante sud-ovest della seconda spalla del corno piccolo; qui il sole non è ancora arrivato e la differenza di temperatura è evidente.
Indossiamo i caschetti e ci prepariamo per la via indossando imbrago e ferraglia varia.
Giorgio e Pietro si giocano con la sacra e inviolabile legge del “Chin Chun Clan”, la precedenza sulla via, e dopo un’intensa sfida, vince Pietro… evidentemente Giorgio è fortunato in amore.
Così diamo un’ultima sbirciata alla guida, individuiamo la via e cominciamo la salita.
La roccia è gelata e le mani sembrano non rispondere bene ai comandi per il freddo, ma poco importa, finalmente stiamo scalando e non c’è temperatura che possa freddare il nostro animo.
Il primo tiro che saliamo è “Amore Gambini”, composto da 6 vie che ci porteranno in cima alla seconda spalla.
Lungo il primo tiro cerco di riprendere confidenza con questa scalata strana, che per me è poco spontanea: cerco di tenere il peso ben distribuito ora su quattro, poi su tre appoggi saldi.
Non ci si può permettere di scivolare o di staccare per errore pezzi di roccia dalla parete, perché metterebbe in pericolo me e gli altri due compagni di cordata.
Procedo quindi con delicatezza e, nonostante mi senta ancora un po’ arrugginito, dopo una decina di minuti sono alla prima sosta montata con cura e precisione da Pietro.
Continuando l’ascesa riesco a sciogliermi ed essere sempre più fluido; ora le mani riescono a sentire la roccia ed i piedi si spostano con precisione sulla parete.
Finalmente mi sento a mio agio, il vento mi accarezza e riesco a godermi la salita.