Per arrivare in un luogo sconosciuto, e per certi versi misterioso, si parte sempre da un posto che si conosce bene. Nella conca d’Alpago, nelle Prealpi Bellunesi, c’è un paese d’origine longobarda: si chiama Farra, dall’antica fara, che nella lingua barbarica significa villaggio.
Il paese è accomodato nella valle del torrente Runàl, alle pendici della foresta del Cansiglio e guarda al lago di Santa Croce. Nelle stagioni fredde l’abitato è avvolto dal fumo dei camini delle stufe a legna che si stende sopra i tetti come un velo e permane, perché il paese è incuneato nella valle e protetto dal vento del lago, che in estate e in primavera si alza nella tarda mattinata. Come molte realtà montane e pedemontane il paese di Farra pare assediato dal bosco, una vegetazione giovane che piano piano si riprende le vallette, i colli, le pale, le conche che erano coltivate a foraggio.
Qui abitiamo io e l’amico fotografo paesaggista Francesco Cerpelloni, ed è lui che mi parla per la prima volta di un borgo abbandonato e di cui pochi conoscono l’esistenza: il suo nome è Somarèra.
Prendiamo una carta topografica e vediamo che nei pressi del borgo abbandonato, alle pendici dell’antica foresta del Cansiglio, ci sono altri luoghi, altri nomi che invece conosciamo bene. Mezzomiglio, per esempio, che ricorda il limite della confinazione della Repubblica Veneziana, la Serenissima, che estendeva il suo dominio fino alla foresta di faggi dell’altopiano, dove c’erano i preziosi alberi adatti a diventare remi per la flotta veneziana. Il mezzomiglio intorno alla foresta era lo spazio ultimo dove gli abitanti dell’Alpago potevano spingersi al pascolo, al taglio della legna, all’uso del bosco senza incorrere nella sanzione veneziana. Oppure il borgo di Poiatte, sulla sponda del lago, che rimanda come un soffio di fumo acre alla pratica del poiàt, la produzione di carbone attraverso la lenta combustione nei cumuli conici di legna nel bosco. E poi il santuario bianco della Madonna del Runàl, immerso nel bosco, e meta di fedeli e turisti. A ben guardare quel pendio della montagna è un intrico di sentieri, vie, camminamenti che testimoniano di una terra abitata, lavorata, vissuta.
Somarèra è su quello stesso versante della montagna, intorno ai 600 metri d’altezza, vicino all’abitato di Pianture, questo ci dice la cartina. Solo che quel borgo è invisibile, non c’è nessun cartello, nessuna indicazione. E forse se ne è persa la memoria.
È un bel pomeriggio d’autunno inoltrato quando montiamo in macchina con lo spirito dei ragazzini che siamo stati e saliamo verso Pianture e poi ancora più su, dove la salita diventa irta e la nostra utilitaria arranca. Lasciamo la macchina e ci avviamo a piedi con poche cose nello zaino: un notes, una macchina fotografica, un cavalletto, un’accetta, dell’acqua da bere.
La stradina in discesa in mezzo al bosco è piuttosto larga, sembra adatta al passaggio di un piccolo trattore. Siamo già dentro al bosco fitto e le foglie ai nostri piedi sono un manto rumoroso e soffice. La via è ripida ma facilissima da scendere, alla nostra sinistra una valletta da cui giunge uno scroscio d’acqua. Arriviamo a una casa disabitata, quindi proseguiamo a destra, e imbocchiamo un sentiero. È in piano e la prima cosa che mi fa notare Francesco sono i muri a secco a monte e a valle del tracciato che mantiene una sua evidenza e solidità, nonostante le ramaglie che lo assediano. I sassi del muro sono ricoperti di muschio verde e umido. Un paio di alberi sono caduti di traverso al sentiero, ma qualcuno ha liberato il passaggio: è sempre bello quando l’opera di uno sconosciuto agevola il cammino, è come se l’altruismo e il senso civico non fossero solo parole, ma una pratica che si può incontrare anche nel fitto di un bosco ceduo in autunno.
Il sentiero si mantiene ampio e fa pensare che un tempo doveva essere utilizzato tutti i giorni e vedeva il passaggio di persone e animali, slitte, piccoli carretti condotti a mano. Passiamo vicino a una vecchia stalla abbandonata, ha due porte, le travature degli sporti sono lavorate: considero che in una stalla così ci potevano stare almeno quattro vacche e un paio di vitelli e il pensiero successivo è questo: qua intorno ci doveva essere tanto prato da falciare per l’alimentazione delle vacche, il cui latte lavorato nelle latterie diventava il nutrimento proteico essenziale dei montanari e delle loro famiglie. Riprendiamo il cammino e la sensazione che ho non è più quella di andare in un luogo geografico, ma di risalire la china del tempo.
Poi il sentiero scende stretto e ripido, quasi non si riconosce nel fitto delle foglie cadute e i fusti degli alberi risaltano chiari e il cielo è come sorretto dall’intreccio dei rami sopra di noi. Francesco all’improvviso mi dice: «Eccoci a Somarèra».
Bellissimo racconto che mi ha fatto viaggiare nel tempo e commuovere essendomi rispecchiato in alcuni passaggi magistralmente descritti da Antonio. Le mie radici alpagote vi ringraziano!
Scorrevole e piacevole racconto, ricco di informazioni a me nuove, ti immerge nei profumi, negli sguardi di luoghi che presto spero di toccare. Grazie per questa condivisione