Reportage

#14 SOMARÈRA: L’ANIMA DI PIETRA E ACQUA DELLA MONTAGNA

testo di Antonio G. Bortoluzzi, foto di Francesco Cerpelloni  / Alpago (BL)

23/11/2020
8 min
Il Bando del BC20

Somarèra: l’anima di pietra e acqua della montagna

di Antonio G. Bortoluzzi

Per arrivare in un luogo sconosciuto, e per certi versi misterioso, si parte sempre da un posto che si conosce bene. Nella conca d’Alpago, nelle Prealpi Bellunesi, c’è un paese d’origine longobarda: si chiama Farra, dall’antica fara, che nella lingua barbarica significa villaggio.

Il paese è accomodato nella valle del torrente Runàl, alle pendici della foresta del Cansiglio e guarda al lago di Santa Croce. Nelle stagioni fredde l’abitato è avvolto dal fumo dei camini delle stufe a legna che si stende sopra i tetti come un velo e permane, perché il paese è incuneato nella valle e protetto dal vento del lago, che in estate e in primavera si alza nella tarda mattinata. Come molte realtà montane e pedemontane il paese di Farra pare assediato dal bosco, una vegetazione giovane che piano piano si riprende le vallette, i colli, le pale, le conche che erano coltivate a foraggio.
Qui abitiamo io e l’amico fotografo paesaggista Francesco Cerpelloni, ed è lui che mi parla per la prima volta di un borgo abbandonato e di cui pochi conoscono l’esistenza: il suo nome è Somarèra.

Prendiamo una carta topografica e vediamo che nei pressi del borgo abbandonato, alle pendici dell’antica foresta del Cansiglio, ci sono altri luoghi, altri nomi che invece conosciamo bene. Mezzomiglio, per esempio, che ricorda il limite della confinazione della Repubblica Veneziana, la Serenissima, che estendeva il suo dominio fino alla foresta di faggi dell’altopiano, dove c’erano i preziosi alberi adatti a diventare remi per la flotta veneziana. Il mezzomiglio intorno alla foresta era lo spazio ultimo dove gli abitanti dell’Alpago potevano spingersi al pascolo, al taglio della legna, all’uso del bosco senza incorrere nella sanzione veneziana. Oppure il borgo di Poiatte, sulla sponda del lago, che rimanda come un soffio di fumo acre alla pratica del poiàt, la produzione di carbone attraverso la lenta combustione nei cumuli conici di legna nel bosco. E poi il santuario bianco della Madonna del Runàl, immerso nel bosco, e meta di fedeli e turisti. A ben guardare quel pendio della montagna è un intrico di sentieri, vie, camminamenti che testimoniano di una terra abitata, lavorata, vissuta.
Somarèra è su quello stesso versante della montagna, intorno ai 600 metri d’altezza, vicino all’abitato di Pianture, questo ci dice la cartina. Solo che quel borgo è invisibile, non c’è nessun cartello, nessuna indicazione. E forse se ne è persa la memoria.

È un bel pomeriggio d’autunno inoltrato quando montiamo in macchina con lo spirito dei ragazzini che siamo stati e saliamo verso Pianture e poi ancora più su, dove la salita diventa irta e la nostra utilitaria arranca. Lasciamo la macchina e ci avviamo a piedi con poche cose nello zaino: un notes, una macchina fotografica, un cavalletto, un’accetta, dell’acqua da bere.
La stradina in discesa in mezzo al bosco è piuttosto larga, sembra adatta al passaggio di un piccolo trattore. Siamo già dentro al bosco fitto e le foglie ai nostri piedi sono un manto rumoroso e soffice. La via è ripida ma facilissima da scendere, alla nostra sinistra una valletta da cui giunge uno scroscio d’acqua. Arriviamo a una casa disabitata, quindi proseguiamo a destra, e imbocchiamo un sentiero. È in piano e la prima cosa che mi fa notare Francesco sono i muri a secco a monte e a valle del tracciato che mantiene una sua evidenza e solidità, nonostante le ramaglie che lo assediano. I sassi del muro sono ricoperti di muschio verde e umido. Un paio di alberi sono caduti di traverso al sentiero, ma qualcuno ha liberato il passaggio: è sempre bello quando l’opera di uno sconosciuto agevola il cammino, è come se l’altruismo e il senso civico non fossero solo parole, ma una pratica che si può incontrare anche nel fitto di un bosco ceduo in autunno.

Il sentiero si mantiene ampio e fa pensare che un tempo doveva essere utilizzato tutti i giorni e vedeva il passaggio di persone e animali, slitte, piccoli carretti condotti a mano. Passiamo vicino a una vecchia stalla abbandonata, ha due porte, le travature degli sporti sono lavorate: considero che in una stalla così ci potevano stare almeno quattro vacche e un paio di vitelli e il pensiero successivo è questo: qua intorno ci doveva essere tanto prato da falciare per l’alimentazione delle vacche, il cui latte lavorato nelle latterie diventava il nutrimento proteico essenziale dei montanari e delle loro famiglie. Riprendiamo il cammino e la sensazione che ho non è più quella di andare in un luogo geografico, ma di risalire la china del tempo.
Poi il sentiero scende stretto e ripido, quasi non si riconosce nel fitto delle foglie cadute e i fusti degli alberi risaltano chiari e il cielo è come sorretto dall’intreccio dei rami sopra di noi. Francesco all’improvviso mi dice: «Eccoci a Somarèra».

Non ho il tempo di osservare bene che sentiamo, sul pendio alla nostra sinistra, un tramestio di rami spezzati e scorgiamo il fondo schiena di una femmina di capriolo che si allontana a balzi. Ritorno a osservare davanti a noi e vedo tre edifici chiari, tre piccole case in fila su quella che potrebbe essere la linea di un camminamento. Scendiamo e ci fermiamo in una radura, l’ingresso del borgo abbandonato ci regala il più grande benvenuto che dei viandanti, dei contadini, degli allevatori di vacche si possano attendere: la fontana. È piccola, ricoperta di muschio, e anche se l’acqua non zampilla si avverte la cura di quel manufatto e la disposizione di benvenuto. In realtà mi aspettavo edifici con muri a secco fatti di pietre che vanno dal color grigio al marrone chiaro, perfino al giallastro, e invece queste tre case sono rifinite con intonaco al grezzo pitturato con calce bianca. Lasciamo le nostre cose alla fontana e ci avviciniamo con prudenza alle case diroccate, a quelle geometrie erette dal lavoro degli uomini. E sappiamo che nonostante la pioggia che ha marcito le travature, fatto crollare i tetti, sbrecciato i muri siamo sotto la casa di qualcuno, dentro delle proprietà, anche se sono abbandonate da decenni.

Contiamo sei case e sei stalle, altre piccole costruzioni sparse, e poi cumuli di pietre ricoperte d’erbe e muschio che erano edifici. Ci sono delle pietre d’angolo che non hanno ancora ceduto e si alzano come colonne verso il cielo, e hanno lo stesso vigore dell’àgar (acero), del brédol (betulla), del róre (rovere) che primeggiano là intorno, sono costruzioni testarde al vento, al gelo, allo schianto degli alberi: un giorno crolleranno anche loro, però intanto sono lì, ancora a piombo e fanno vedere l’antica maestria del posare le pietre che sfida i decenni, l’incuria e perfino la natura selvatica. Noi camminiamo con attenzione, tenendoci a debita distanza e senza toccare quelle colonne di pietra il cui crollo potrebbe esserci fatale. A valle delle costruzioni, nell’intrico del bosco di noselèr (nocciolo) e spìn (rosa canina), m’immagino come doveva essere tanti anni prima: una conca prativa concimata col letame e che faceva crescere oltre il metro d’altezza la prima erba, detta coltùra, e vedeva i falciatori all’opera per tutta l’estate. Quel falciare, quell’affilare le falci, poteva sembrare un suono di lame di spadaccini all’assalto dei prati.

Ci avviciniamo a una casa con una scala di legno che porta al primo piano: troppo pericoloso provare a salirci. Francesco si ferma e osserva i fogli sgualciti portati dal vento e poi inchiodati dall’umidità su quei gradini. Leggiamo Quaderno di merceologia, scuola di avviamento commerciale, agrario e industriale femminile e una data: 1959. Fa un certo effetto pensare che sessant’anni prima, in quel pugno di case ci fosse una ragazzina che studiava le merci, il far di conto, le proprietà nutrizionali dei cibi. Chissà se da grande voleva aprire un negozio. Ancora una volta la narrazione della montagna della solitudine, dell’ottusità, delle bizzarrie si sgretola su questi poveri ma dignitosi gradini, su questa schiera di case che forse non hanno mai conosciuto la modernità dell’energia elettrica, della strada carrozzabile, del telefono, ma dove c’era l’impegno di una famiglia e di una ragazzina a studiare dentro il profumo del fieno, negli odori forti delle bestie, nei suoni dell’estate fatta di lavoro e del sogno di una vita migliore.

Andiamo oltre, passiamo i ruderi delle stalle e ci colpisce una costruzione più alta. Doveva essere una bella casa a due piani. È completamente crollata, rimane in piedi solo una parete che si è salvata anche dal grande albero schiantato sui muri indifesi. Ciò che stupisce della parete di pietre di fronte a noi è il vetro intatto della finestra al centro. In tutto quell’inferno di cadute, vento, gelo, neve, pioggia, il vetro della finestra, composto da sei riquadri, è ancora intatto come fosse un occhio, uno sguardo trasparente sul borgo abbandonato. Penso che la finestra non separa più un dentro da un fuori, perché la natura è ovunque, ma rappresenta una fragile barriera, come un magico diaframma tra il presente e il passato. E forse la memoria delle persone è come quel vetro, che può essere spezzato in un secondo, oppure durare per molto tempo, riflettere, fa riflettere, permettere di vederci attraverso, e scorgere quel mondo contadino che è durato millenni e ora non c’è più.

Le giornate nel fitto del bosco autunnale si accorciano in fretta ed è già ora di far ritorno. Siamo felici delle pietre, dei fogli di quella ragazzina che voleva imparare un mestiere, e di quella fragilità del vetro che resiste.
Ci allontaniamo dalle case, scendiamo un po’ a valle per fare il giro più largo e ci imbattiamo in altre due costruzioni con le porte verdi di lamiera e i lucchetti: ecco un segno di presenza umana recente. Comune di Alpago, serbatoio Gambin. E stiamo ad ascoltare lo scroscio dell’acqua che dal profondo della montagna viene raccolta nelle vasche per poi scendere a valle, al paese, alle persone. E se oggi è difficile capire la ricchezza di questa terra che era stata trasformata da bosco in prato per essere abitata da contadini e contadine che sapevano ricavare dai propri piccoli appezzamenti granoturco, vino, ortaggi, frutti, e poi fieno per le vacche e quindi latte, formaggio, burro, possiamo udire la ricchezza liquida della montagna, quel dono prezioso e vitale che è l’acqua. Questa ricchezza si può capire e bere anche oggi. Anche domani. Somarèra è il borgo dimenticato che custodisce l’anima di pietra e acqua della montagna.

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foto:
1./2./3. Le foto sono di 
Francesco Cerpelloni, fotografo paesaggista, ha pubblicato nel 2008 il volume fotografico “Alpago, immagini per raccontare” e nel 2019 il volume collettivo “Terra d’Alpago”. Ama la fotografia in bianco e nero e la montagna.

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Antonio G. Bortoluzzi

Antonio G. Bortoluzzi

Sono nato nel 1965 in Alpago, Belluno, dove tutt’ora vivo e lavoro. Nel 2019 ho pubblicato il romanzo “Come si fanno le cose” (Marsilio Editori) e nel volume collettivo “Lettere da Nordest” (Helvetia Editrice) il saggio “Un’invenzione spettacolare: la montagna come solitudine”. In precedenza, nel 2015, avevo pubblicato il romanzo “Paesi alti” (Ed. Biblioteca dell’Immagine) con cui ho vinto nel 2017 il Premio Gambrinus - Giuseppe Mazzotti XXXV edizione nella sezione Montagna, cultura e civiltà. Lo stesso romanzo era stato finalista al Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo 2016 e al premio letterario del CAI Leggimontagna 2015.


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2 commenti:

  1. Angelo Dalla Costa ha detto:

    Bellissimo racconto che mi ha fatto viaggiare nel tempo e commuovere essendomi rispecchiato in alcuni passaggi magistralmente descritti da Antonio. Le mie radici alpagote vi ringraziano!

  2. Donatella ha detto:

    Scorrevole e piacevole racconto, ricco di informazioni a me nuove, ti immerge nei profumi, negli sguardi di luoghi che presto spero di toccare. Grazie per questa condivisione

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