Il sole di mezzogiorno batte forte in Valserenaia. Mentre cammino all’ombra dei faggi e alle pendici del Grondìlice, d’improvviso mi sento chiamare da un inglese un po’ tedesco: «Scusa, sapresti darmi un’informazione», mi chiede.
Si chiama Matheus, è un escursionista bavarese. Il ragazzo prende una cartina e mi indica delle linee che disegnano delle chiazze in mezzo al Parco Regionale delle Alpi Apuane.
«Sapresti dirmi che cosa sono queste linee, non le trovo nella legenda».
«Hai ragione, non ci sono», gli dico. Indicano i confini delle cave di marmo, sono aree escluse dal parco dove si cava la pietra bianca per cui queste montagne sono diventate famose in tutto il mondo. «Sai, la Pietà di Michelangelo? Viene da qui».
«Si scava in mezzo a un parco naturale?», mi chiede.
«Sì, l’estrazione del marmo è una pratica antica, il parco è stato disegnato di recente e le cave sono state escluse dai suoi confini».
«Capisco» mi dice, «quindi queste linee rappresentano il limite di escavazione?» «Veramente no, la maggior parte delle cave è più ampia dei tracciati che vedi, e in essi non sono incluse molte delle cave inattive e abbandonate».
All’alba lascio il versante della Garfagnana e una forte pioggia autunnale inizia a battere la strada, raggiungo Castelnuovo e prendo la via di Arni. Dopo aver fiancheggiato per chilometri il Turrite Cava, la via sprofonda nel passo del Vestito, un tunnel scavato nella roccia nuda, senza luci e percorso da enormi camion polverosi carichi di blocchi bianchi. Improvvisamente la luce investe il parabrezza e mi affaccio sul bacino estrattivo di Massa. Davanti a me si dipana una cresta montuosa di sei chilometri e mezzo completamente devastata. Tagli profondi, calanchi pieni di detriti e montagne capitozzate lasciano senza fiato.
Alla fine della via panoramica inizio a percorrere la Valle del Frigido. Immersa tra i castagni umidi per la pioggia, la via Bassa Tambura si addentra tra le pendici Apuane fino a raggiungere le falde dell’area più selvaggia della catena montuosa. Mi metto la mantella e raggiungo un ovile appoggiato su un basamento roccioso bagnato dal fiume Renara. Sulla porta c’è un pastore e i cani mi vengono incontro abbaiando bagnati, sospettosi e infine docili.
Il pastore mi fa un cenno col capo e lo raggiungo. Mi chiede che ci faccio lì, si interessa subito alla questione e vuole dire la sua. Mi indica la montagna sopra di noi, la Tambura, e mi dice: «Vedi? Oltre quella montagna c’era un alpeggio importante. Con la bella stagione iniziava la transumanza e percorrevamo il Passo della Focolaccia. Ora il passo non esiste più, c’è una cava al suo posto. Poi guarda, mi fa, guarda il fiume, vedi che sta diventando bianco?»
Mi affaccio dallo sperone di roccia e controllo. Il pastore mi fa un altro cenno col capo e mi indica una direzione.
«Vai là, raggiungi la sorgente, è un buco nella pietra».
Mi dirigo verso la montagna e dopo pochi minuti vedo un turbolento getto d’acqua velata che si fa sempre più bianco, sgorga con forza e allagando prima un greto di sassi in piano, precipita a valle in gorghi rumorosi. Dopo un po’ il bianco non lascia più spazio alla trasparenza, pare che la montagna sia diventata una vacca gigantesca.
Questo effetto è dovuto alla marmettola, una polvere finissima prodotta dal taglio del marmo; drenando dai fronti di cava e dilavata dalla pioggia, raggiunge i fiumi o peggio, come in questo caso, la falda acquifera. Si riversa nelle acque a valle e mentre si dirige verso il mare si deposita sul fondo dei fiumi cementificandolo. Impedisce alla flora di crescere rendendo l’habitat sterile per la fauna e danneggiando irreparabilmente l’ecosistema. Nei piazzali, alla marmettola si mescolano oli esausti e metalli pesanti. I primi sono perdite di mezzi da lavoro, i secondi sono la macinatura delle catene diamantate. Ogni 100 metri quadri di taglio, sostengono i geologi, si disperdono nell’ambiente dai 50 ai 60 grammi di leganti metallici, per lo più rame, stagno, nichel, cobalto, ferro e wolframio.
Nel solo Comune di Massa la presenza delle cave causa un forte fenomeno di inquinamento della falda che costa ogni anno 300.000 euro di depurazione. Questa somma si trova in bolletta ai clienti finali e le aziende che causano l’inquinamento sono dispensate dall’onere di porvi rimedio.