Reportage

#6 GIÙ DALLA MONTAGNA

testo e foto di Alberto Sciamplicotti

La montagna dei Due Corni era lì
05/11/2020
9 min
Il Bando del BC20

Giù dalla montagna

di Alberto Sciamplicotti

Correvo fra gli alberi e i rami di rosa canina graffiavano le gambe nude nei pantaloni corti.

Il fazzoletto in testa era quello dei pirati, dei briganti, dei soldati e dei partigiani. Era tutto questo e mille altre cose ancora. Il bastone in mano era archibugio, coltello o pistola e dietro l’ombra di ogni albero c’era un nemico contro cui combattere.
Fabrizio era un samurai che roteava la spada contro invasori stranieri.

Le biciclette erano in terra, fuori dal campo di battaglia, sul sentiero verso la montagna.
Il sole filtrava tra le foglie e creava macchie di luce sul terreno: ognuna era una mina pronta a esplodere. Saltavo di ombra in ombra per evitare lo scoppio che mi avrebbe dilaniato.
Arrivammo al margine superiore del bosco e succhiavamo bacche rosse arrampicando e discutendo su chi tra noi fosse Bonatti o Maestri.
Dal grosso masso che costituiva la vetta lo sguardo spaziava sull’orizzonte: vedevamo le altre montagne, i boschi e in basso i rettangoli dei terreni coltivati. Giocavamo a strappare i fili d’erba che crescevano fra le rocce.
«Dobbiamo andare sulla Montagna dei Due Corni» disse Fabrizio sdraiandosi, «i boschi sono più belli e poi sulla montagna ci si arrampica veramente».
Cercavo di prendere un grillo, lo inseguivo in ginocchio, con il braccio proteso e la mano aperta per catturarlo.
«Ho visto gli alpinisti. Avevano le corde che uscivano dagli zaini. Sarebbe veramente una bella avventura».

Il vento muoveva i lunghi steli d’erba facendoli sbattere sul viso. Li spostavo con la mano e urtavano l’orecchio che prudeva solleticato.
Le giornate erano sempre più corte e di lì a poco le lezioni scolastiche avrebbero segnato la fine delle vacanze estive.
«Mio padre ha detto che partiamo sabato» riprese Fabrizio guardando verso la Montagna dei Due Corni.
Dalla parte opposta l’orizzonte scendeva verso la pianura, degradando dalle montagne alle colline in direzione della città: una spessa foschia umida impediva di cogliere i dettagli.
Con un gesto veloce chiusi la mano sul grillo prima che potesse saltare.
«Allora dobbiamo assolutamente andare domani» dissi aprendo lentamente le dita per osservare l’insetto.
«E’ l’ultimo giorno che ci resta».
Il grillo approfittò della breccia per saltare via.

Ci tuffammo nella discesa correndo attraverso il bosco. Passavamo vicino agli alberi facendo curve strette in veloci cambi di direzione.
In sella alle nostre biciclette pedalammo poi con forza. Ci sorpassavamo ridendo, rincorrendoci sul sentiero che portava a casa.
Urlavamo passandoci vicino. Le gomme mordevano veloci la ghiaia schizzandola ai lati e dietro di noi.
Ci saremmo incontrati la sera, al bar di Agnesina, per mettere a punto l’avventura del giorno seguente. Sapevamo che avevano portato un nuovo flipper e arrivai prima e con una manciata di monete per avere il tempo di provarlo.
Le biglie d’acciaio rimbalzavano su molle e gommini, accendendo spie colorate. Il totalizzatore ticchettava, le campanelle suonavano e i cicalini ronzavano riempendo il bar di rumori elettrici che non udivo: l’orecchio era rapito dai discorsi di Giuliano ed Erasmo a pochi metri di distanza. Erano di qualche anno più grandi di noi e le scorribande che compivano sembravano epopee irraggiungibili e misteriose. Erano alti e magri, di quella magrezza propria dei giovani quando i corpi crescono formando l’abbozzo di un fisico adulto.

Dal grosso masso che costituiva la vetta lo sguardo spaziava sull’orizzonte

«Allora rimaniamo così» diceva Giuliano, «una lampadina tascabile l’abbiamo e tu e Fausto portate le candele come riserva».
«Ieri c’è stato il funerale di zì Giotto» biascicò Erasmo.
Aveva in mano un bicchiere di vetro, lavorato a coste e con incisa la scritta Birra Peroni, pieno a metà di spuma.
«E allora? Non avrai mica paura, anzi sarà più divertente: c’è anche la luna piena!» disse Giuliano.
«Certo che un’altra torcia elettrica avrebbe fatto comodo» aggiunse.
Diedi un colpo forte al flipper che andò in tilt.
«Ho due torce. Se lasciate venire anche Fabrizio e me una potrei prestarvela».
Le parole erano uscite da sole, spinte dalla voglia di partecipare a quell’avventura.
«Ma se non sai nemmeno dove vogliamo andare e poi di che t’impicci?» rispose Erasmo.
Fabrizio si fermò vicino al flipper, rimanendo in silenzio e cercando di capire di cosa stessimo parlando.
«Volete andare a fare un’esplorazione notturna del cimitero».
«Ma a voi non vi portiamo» fece Giuliano, «ve la fareste sotto».
Era l’unico tra noi che già si radesse periodicamente la barba. Ostentava sempre un pacchetto di sigarette, che teneva bloccato sotto la manica corta e rovesciata della maglietta, come fosse un generale con i galloni.
«Allora non vi prestiamo la torcia» dissi.
«E comunque non ce la facciamo sotto» aggiunse Fabrizio che cominciando a comprendere il motivo del contendere voleva far valere i suoi diritti di partecipazione alla gita notturna.
Giuliano guardò Erasmo e ammiccando gli chiese: «Che dici li facciamo venire?»
Erasmo finì il suo bicchiere di spuma. Si grattò il naso.
«Non saprei».
«Ma sì, che vengano pure» decise Giuliano, «Ci divertiremo anche di più».
«Appuntamento fra un’ora sulla tomba di zì Giotto e attenti ai lupi mannari e ai fantasmi. C’è luna piena!»
«Andiamo subito a prendere le torce» dissi a Fabrizio, «altrimenti non facciamo in tempo».
Uscimmo dal bar e sentimmo Erasmo urlarci dietro: «Prendete anche i pannolini così sarete più sicuri di non sporcarvi!»

All’ingresso del cimitero fummo presi dai timori.
Era un paese piccolo. Tutti si conoscevano e sembrava inutile chiudere il camposanto a chiave o con un lucchetto. Il cancello in ferro gemette sui cardini e sgusciammo dentro. La luna stava sorgendo ed era ancora solo una lama chiara dietro la collina. Sotto le lapidi erano accese candele e moccoli rossi. Fiammelle tremolanti rischiaravano i marmi e le croci con un’incerta luce arancione.
Addossati al muro di cinta, i loculi formavano un lungo edificio bianco. I ritratti sulla ceramica sembravano finestre con persone affacciate. Dietro la pietra lucida c’era però solo legno marcio, ossa e polvere.
«Forse era meglio se l’appuntamento era al cancello» sussurrò Fabrizio.
Un cane lontano abbaiò nella notte e un’upupa spaventata dalle nostre voci si alzò in volo dal tetto di una cappella vicina.
«A quelle storie di fantasmi e mostri non credo» dissi, «ma non si sa mai…».
Illuminai intorno. Vicino a un tumulo trovai vicino dei sassi. Ne misi due grandi in tasca e ne tenni un terzo in mano. Fabrizio spense la torcia e prese anche lui due grossi sassi.
Camminavamo nella luce arancione dei lumini. La ghiaia scricchiolava sotto i passi. I nomi in rilievo sulle lapidi danzavano nel fascio della lampadina tascabile. Fabrizio muoveva i sassi nelle mani camminando. Li bilanciava cercandone il peso e l’impugnatura migliore per un eventuale lancio.

«Ma dov’è la tomba di zì Giotto?»
Con la torcia illuminai il viale fino a una cappella di marmo rosa.
«Dovrebbe essere lì dietro. Non si vede nessuno però».
«Dove siete? Giuliano, Fausto, Erasmo: uscite fuori» sussurrò Fabrizio.
Un cigolio metallico e il cancello della cappella rosa si aprì. Ci bloccammo con il fiato sospeso e i muscoli in tensione. I piedi erano incollati a terra sull’ultimo passo: un lamento sommesso ci giunse dall’interno. I capelli si drizzarono sulla nuca quando con un urlo bestiale una figura dal viso pallido e avvolta in un sudario bianco, uscì tenendo le braccia avanti come per ghermirci.
Con la coda dell’occhio vidi Fabrizio, spaventato, portare sopra la spalla la mano destra e tirare un sasso. La pietra che teneva nella sinistra cambiò di mano e seguì la prima con millimetrica precisione.
Erasmo urlò di dolore con la faccia pallida per la polvere di cenere.

Nella nebbia che si avvicinava i nostri cuori erano scuri

«Fermi, fermi!»
Fingendo di non averlo riconosciuto tirai anch’io, colpendolo a una coscia e sul braccio che muoveva veloce per proteggere il corpo dai proiettili di pietra.
Raccogliemmo degli altri sassi e ci avvicinammo al falso fantasma. Dalla cappella venivano risate sguaiate trattenute a stento. Erasmo seduto in terra si lamentava massaggiandosi la coscia e il torace.
«La prossima volta lo fate voi il fantasma» mugugnò trattenendo le lacrime.
«Smettila di frignare» disse Giuliano ridendo e uscendo dalla cappella, «che non ti ha obbligato nessuno».
«Anzi, ti sei anche offerto volontario» aggiunse Fausto pulendo la maglietta dalla cenere usata per truccare Erasmo.
Giuliano si avvicinò a noi. Mosse le dita intorno al viso atteggiato in una smorfia paurosa e ringhiò: «Benvenuti nel cimitero dei mostri e dei fantasmi. Benvenuti nella notte della paura!» Rise e la sigaretta che aveva nella mano destra, mossa nell’aria, tracciava scie di brace.
«L’ultimo che arriva al Monumento ai Caduti è una femmina!» gridò correndo via.

Ci dividemmo e correvamo fra i viali e saltavamo sopra i tumuli e le tombe per non calpestarle e ci nascondevamo dietro le lapidi aspettando che passasse qualcuno per sbucare fuori saltando e urlando. Era veramente la notte dei mostri e dei fantasmi e della paura. Soprattutto era la nostra notte.
Il Monumento ai Caduti di guerra era nella parte alta del cimitero e dal suo basamento di pietra grigia si dominavano tutto.
Ritardati dagli agguati e dagli inseguimenti, giungemmo tutti nello stesso momento. La discussione per chi fosse arrivato ultimo e meritasse l’appellativo di femmina ci impegnò per qualche minuto e si concluse solamente quando Fausto, dopo essersi diretto verso la parte posteriore del mausoleo, ritornò con un sacchetto in mano da cui estrasse una bottiglia di vermouth.
Eravamo seduti sul bordo del basamento. Fausto, Erasmo e Giuliano bevevano il Riccadonna scherzando e a grandi sorsi. Quando ci passarono la bottiglia pensai ai miei genitori che mi consentivano di bere solamente un dito di vino rosso durante il pranzo della domenica. Fabrizio tentennò e anche il suo primo sorso fu breve. Quando la bottiglia ritornò, il liquore ci riempì la bocca, ma i sorsi furono così esagerati che traboccarono le labbra e scesero a bagnare il mento.
«Vorrei fare un brindisi» disse Giuliano prendendo la bottiglia e alzandola, «a zì Giotto e alla sua cirrosi».
Diede un lungo sorso.

«A zì Giotto che ci regalava sempre le sigarette» aggiunse Fausto.
Il boccione da due litri finì presto e l’alcool dopo averci resi allegri, regalava ora lo stordimento.
Eravamo sdraiati e guardavamo le stelle.
«Quante sono» disse Fabrizio, «sembrano di più delle altre sere».
«E’ che sei ubriaco e ne vedi il doppio» disse Giuliano.
L’eco delle nostre risate scivolò fra lapidi e cappelle e il cimitero non era più un luogo triste. Sembrava invece pervaso da una sottile magia, trasformato in qualcosa di diverso.
Tutto era come sempre stato eppure sembrava differente.
Erasmo fece scattare l’accendino e iniziò a scaldare una briciola marrone che aveva nel palmo. Giuliano ruppe una sigaretta, sbriciolò con le dita il tabacco e lo distribuì uniformemente in un piccolo rettangolo di carta. La particella marrone venne frantumata e mescolata al tabacco. Giuliano arrotolò il rettangolo di carta, lo accese e cominciò ad aspirarne il fumo. Il cilindro bruciava lentamente spargendo per l’aria un odore dolce che ricordava quello dell’incenso. Mi tornò in mente il giorno della Prima Comunione, la chiesa affollata e il parroco e gli stuoli infiniti di chierichetti e l’atmosfera di attesa fra i bambini nelle prime file dei banchi.

Fabrizio ed io non avevamo mai provato a fumare. Il fumo caldo bruciò in gola e nel naso facendoci tossire.
Ridemmo e per far durare di più il fumo, dopo ogni tirata, lo soffiavamo nella bottiglia vuota del vermouth che chiudevamo subito con il pollice. Riuscimmo a fumare per altri due giri respirando dalla bottiglia.
Si parlò di ragazze, di Fiorella la bella pisella e di Arianna tutta panna. Fabrizio e io ascoltavamo estasiati, con la bocca aperta e la mente stordita e confusa dall’alcool e dal fumo.
Ci riprendemmo solamente quando il vento ci schiaffeggiò in viso. Seduti sul sellino posteriore dei motorini di Fausto e Giuliano, andavamo verso la foschia, in basso, alla ricerca di nuovi divertimenti. Nella nebbia che si avvicinava i nostri cuori erano scuri.
Quella mattina eravamo scesi dalla montagna correndo e giocando. Ora eravamo invece lanciati verso la pianura. I progetti di avventure sul Monte dei Due Corni sembravano distanti e nascosti già nelle pieghe di una memoria lontana.

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foto:
1. La montagna dei Due Corni era lì.
2. Dal grosso masso che costituiva la vetta lo sguardo spaziava sull’orizzonte.
3. Nella nebbia che si avvicinava i nostri cuori erano scuri.

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Alberto Sciamplicotti

Alberto Sciamplicotti

Fotografo, scrittore e a volte videomaker, ama raccontare e condividere emozioni nella convinzione che tessere una rete umana possa aiutare a capire noi stessi e gli altri e a vivere più in armonia con il mondo.


Il mio blog | Luogo di incontro, piazza virtuale dove poter raccontare, anche quando la parola non arriva, esperienze ed emozioni con scritti, immagini e filmati. Un piccolo esperimento “in progress” sta andando avanti oramai da oltre 14 anni. Fortunatamente non sono mancati i compagni di viaggio, persone con cui condividere le emozioni di ogni giorno passato fra montagne e pianure. www.sciampli.it
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