È una sera del 1952, Woodstock, NY. C’è un concerto.
Il pubblico prende posto, il pianista entra, si chiama David Tudor. Si siede al pianoforte, chiude il coperchio della tastiera, posa le mani sulle cosce e resta immobile. Il pubblico ascolta, rumoreggia, si scoccia.
Immaginate di trovarvi in un bosco o su un prato in quota. Siete in gruppo o da soli, non ha importanza. Qualcuno vi dice di fermarvi e di ascoltare. Voi immediatamente non capite, vi mettete a cercare in tasca, tendete le orecchie. Poi vi accorgete che non c’è molto da ascoltare, giusto il vento che si infila tra le crode o un sasso mosso da un capriolo: viene, va, sparisce. Alla fine della passeggiata, in rifugio, qualcuno vi interroga su quello che avete sentito, sul vento, sul sasso. Dopodiché vi chiede come vi siete sentiti e al che rispondete: come un pubblico di fronte a una sinfonia naturale.
Finita la minestra, bevuto il vino, vi incamminerete verso casa. Allora quella stessa persona vi fermerà ancora, ma questa volta non vi dirà di ascoltare il vento e i sassi, ma i vostri passi, il vostro respiro affannoso, il suono dei bastoncini sul calcare e come si mescolano con gli altri. La sera, a tavola, di fronte a un’altra minestra, quella persona vi chiederà di descrivere come vi siete sentiti scendendo. Al che, questa volta, voi risponderete: dei musicisti.
Adesso, pensate di nuovo di trovarvi in un anfiteatro dolomitico, in un antico circo glaciale, uno di quelli con i laghetti azzurri in mezzo. Questa volta ci sono tante persone, saranno cinquecento a colorare i bianchi ghiaioni dolomitici. Qualcuno ha portato su uno Steinway a coda, di cinque quintali. Ve lo immaginate appeso all’elicottero finché volteggia attorno al Cimon della Pala, c’è da ridere. Non frequentate molto le sale da concerto ma quell’evento vi è sembrato interessante e vi siete presentati. Da lontano vedete arrivare uno col frak, non lo conoscete, ha un nome con tante consonanti, deve essere polacco o roba simile. Si siede al pianoforte. Chiude la tastiera, posa le mani sulle cosce e resta immobile. A quel punto quello al vostro fianco vi sussurra che da quel momento qualunque cosa sentirete è musica. Voi diffidate, fate bene, ma ormai siete lì. Quattro minuti e trentatré secondi più tardi il pianista si alza. La gente applaude. Esce.
Quando più tardi, davanti alla minestra, qualcuno vi chiederà cosa avete sentito, voi non farete accenno né al vento, né ai sassi o ai caprioli. A lungo si è detto che la musica è un insieme di suoni organizzati: non è vero. Musica è ogni cosa che si decide di ascoltare come tale, non è qualcosa che si fa, è un modo di porsi nei confronti delle cose, è un approccio all’ascolto.