Dice di essere morto e rinato e che, da allora, ogni giorno in più è gratis. Ha preso in affitto questo bar senza parcheggio, non mette fretta a nessuno e se la prende con calma. Anche con la mia caraffina di bianco. Il tavolo è il solito, gli amici anche.
Marco fa l’elettricista ed è sempre prodigo di pettegolezzi locali. Sa di guardie e ladri, di caprioli e bracchi e di corna di origine varia. È un po’ sovrappeso, e quando ride mi ricorda Vincent Vega.
Boga, che a dir la verità si chiama Bogdan, fa il pastore di pecore. È un omone enorme e taciturno, forse perché questo dialetto gli è difficile. Quando torna dalla Romania, mette sul tavolo una bottiglia di ţuică che, ancor prima del cervello, paralizza le ginocchia.
Michele, cappellino arancione permanentemente in testa, è un boscaiolo. Cinquantadue anni portati male, lavora dall’alba al tramonto su un trattore vecchio quanto lui, ma non riesce a pagare l’università alla figlia, cameriera nei fine settimana in nero, a Ponte di Piave. Ogni tanto gli scappa un’ombra di troppo.
Carlo, invece, è in pensione da un po’. I ragazzi del posto lo chiamano Tuby, perché faceva l’idraulico. Scarpe grosse e cervello fino, Carlo. Commenta le cose della vita con una gestualità secca, un uso sapiente delle pause e un’ampia disponibilità di bestemmie che sceglie con cura; per richiamare l’attenzione, dar corpo a una frase o, più semplicemente, per commentare quello dell’Alessia, la postina che è appena uscita.
Neanche il tempo di sedermi ed eccolo lì, pronto a sventagliarmi un articolo del Corriere delle Alpi sulla frana che si è aperta qualche chilometro più su. Lo fa bonariamente, ma quand’è al terzo Grigioverde conviene annuire, oppure buttarla in ridere.
«Ecco qua, voi professoroni! Eccoli qua i danni che avete combinato, convincendoci a tagliare le nostre foreste per fare piste da sci inutili, neve finta, frutteti e boschi tutti uguali, che basta una pioggia più lunga del solito e vien giù tutto. E invece di fermare le frane da sopra piantando gli alberi che c’erano prima, gli facciamo una gettata di cemento da sotto. Pomàri industriali e cisterne di veleni! Capisci cosa sto dicendo? Per avere mele sane usiamo i veleni! Ma roba da matti… Guarda là» – mi dice indicando il bancone – «acqua dentro la plastica. E sai perché? Perché in trent’anni abbiamo intossicato tutto, abbiamo. Ma che progresso è, cercare l’acqua su Marte e non aver cura delle nostre fonti?»