Più che la capacità tecnica valeva la motivazione interiore
Certo, nel 1950, il clima culturale era mutato. I vincitori della parete Nord dell’Eiger nel 1938 errano stati ricevuti e premiati dallo stesso Hitler, che aveva trasformato la grande impresa alpinistica in occasione di propaganda di regime; gli alpinisti francesi furono celebrati come eroi francesi; ma senza inquinamenti nazionalistici. Anche se la spedizione italiana al K2, portata con successo a termine nel 1954, dimostra che le motivazioni politiche non erano assenti da imprese tanto difficili. Le motivazioni ideologiche non erano estranee neppure alle spedizioni organizzate poco prima della guerra in varie regioni himalaiane dal regime tedesco che nel Kashmir voleva trovare i segni della provenienza della razza eletta.
Certo, l’alpinismo di cui si occupa Samivel è quello delle grandi montagne delle Alpi Occidentali, sulle quali si erano svolti gli episodi più clamorosi della corsa al sesto grado, segnati da un numero enorme di vittime, in particolare sulle pareti nord dell’Eiger e delle Grandes Jorasses, imprese nelle quali la fortissima motivazione interiore era stata determinante più che la pura capacità tecnica.
Imprese preparate e realizzate con criteri tecnico-scientifici
Samivel non lo cita mai esplicitamente, ma l’ideologia con cui si confronta è quella, tedesca, di Eugenio Guido Lammer(4) che predicava un alpinismo di estremo rigore, di cui era parte sostanziale il rischio.
Per la verità, nonostante il successo di Fontana di giovinezza, pubblicato in Francia nel 1931(5), il verbo alpinistico che predicava Lammer ebbe successo prevalentemente tra gli alpinisti tedeschi; anche se rapidamente virato in atteggiamenti nazionalistici. All’estero, una tale etica, seppur affascinante sul piano estetico, venne filtrata attraverso le culture nazionali e, soprattutto, condizionata dai progressi delle tecniche e dei materiali. La poetica dell’alpinismo analizzata da Samivel, nel dopoguerra ha cessato di essere quella, disperata, dell’epoca d’oro del sesto grado, ma ha già acquisito i caratteri dell’impresa preparata e realizzata sulla base di considerazioni tecniche. Imprese come quella della spedizione francese all’Annapurna del 1950 o quella inglese all’Everest del 1953 o quella italiana al K2 del ’54, hanno avuto successo in quanto programmate con stretti criteri tecnico-scientifici, nell’ambito dei quali le caratteristiche personali degli alpinisti hanno avuto un ruolo marginale. Piuttosto, l’analisi di Samivel può essere valida per imprese come quella di Rudolf Peters che nel 1935 salì (con Martin Meier) lo sperone Croz delle Grandes Jorasses, tornato alla mortale sfida, che era costata la vita al suo compagno di cordata Rudolf Haringer solo l’anno prima.
Una fuga panica nelle nebbie del vago sentimentalismo
Particolarmente significativo è il riferimento al film La montagna sacra di Arnold Fanck, del 1926. Il giudizio sull’opera, pubblicato da Siegmund Kracauer sulla «Frankfurter Zeitung» il 4 marzo 1927 ne coglie acutamente pregi e difetti.
“Questo film è una colossale composizione di fantasie sulla cultura del corpo, cretinerie astrali e sproloqui cosmici. Perfino il professionista navigato, ormai indifferente alle chiacchiere vuote sui sentimenti, in questo caso rischia di perdere il suo atteggiamento equilibrato. Forse in Germania ci sono piccoli gruppi di giovani che tentano di contrastare ciò che genericamente viene chiamato meccanizzazione, attraverso un’ossessiva voluttà per la natura, una fuga panica nelle nebbie del vago sentimentalismo. Considerato come espressione del loro modo di vivere, il film è un capolavoro […] Le inquadrature di paesaggi, in funzione delle quali queste stramberie sono pensate, sono talvolta meravigliose […]. Il tema della sciata notturna alla luce delle fiaccole proposta da questo film è una novità: una vaga superficie luminosa si forma lontano nell’oscurità, e poi si frantuma rapidamente in fiamme fugaci(6).”
Era il film che Hitler dichiarò «il più bel film che abbia mai visto sullo schermo»(7). Quanto al critico, si tratta dello Siegfried Kracauer che, nell’opera fondamentale sul cinema tedesco pubblicata a New York nel 1947, riconosceva nel filone alpinistico una vena di «protonazismo»(8).
Il saggio di Samivel, dedicato all’individuazione delle radici psicologiche e sociali dell’alpinismo, acquista pieno significato alla luce del Cap. 9 del lavoro di Kracauer che nell’immagine diffusa della pratica riconosce i tratti, se non del superomismo nietzschiano, almeno di quell’aspirazione al trasumanar che è la cifra peculiare dell’alpinismo di Lammer.
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1. R. MESSNER, Direttissima oder Mord am unmöglichen, Alpinismus, 8, 1968.
2. G.P. MOTTI, I falliti, Rivista Mensile del CAI, settembre 1972.
3. A. HECKMAIR, Die 3 letzten probleme der Alpen, F. Bruckmann Verlag 1949; I tre ultimi problemi delle Alpi, Bologna, Licinio Cappelli Editore 1953.
4. E.G. LAMMER, Jungborn; Bergfahrten und Höhengedanken eines einsamen Pfadsuchers, Munchen, Rudolf Rother 1923.
5. E.G. LAMMER, Fountaine de jouvence, “Jungborn”, ascensions et réflexions d’un alpiniste solitaire, trad. Sénechal e Gaillard, Chambéry, Dardel 1931
6. S. KRACAUER, Frankfurter Zeitung, 4 marzo 1927.
7. H. HOFFMANN, Und die Fahne führt uns in die Ewigkeit, Fisher Taschenbuch Verlag, Frankfurt am Main, 1988, trad. inglese di Broadwin e Berghahn, 1996; The Triumpf of Propaganda: Film and National Socialism, Vol. 1, p. 130.
8. S. KRACAUER, From Caligari to Hitler: a Psychological History of the German Film, Princeton University Press 1947, Trad. italiana, Da Caligari ad Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, a cura di L. Quaresima, Torino, Lindau 2001.