Val di Fiemme
testo e foto di Leonardo Panizza / Trento
Ho sempre vissuto a due passi dalle montagne, tra le montagne. Ricordo con dolcezza il periodo in cui ogni domenica ci si svegliava all’alba per andare a camminare.
L’unico giorno in cui era possibile poltrire, niente scuola, ci si alzava ancora prima, una colazione sostanziosa che non entrava nemmeno con l’imbuto e via. Gli stiracchiamenti al parcheggio duravano pochi istanti. Il vecchio saliva come un razzo commentando i cartelli delle tempistiche dicendo con soddisfazione: “Siamo su in metà del tempo” e una volta che noi ci fermavamo per il panino lui continuava più in alto, faceva qualche cima e tornava stanco e con lo sguardo pieno. Per me l’unico scopo di quel periodo era fare qualche avventura perdendomi sotto lo sguardo attendo di guglie e vette, arrampicando sassi e alberi con fratelli e amici mentre mia madre chiacchierava pigramente. Condividevamo una giornata all’aria aperta in famiglia e tornavamo a casa affaticati e soddisfatti.
Andare in montagna da bambino era soprattutto perdermi in spazi immensi da riempire con la fantasia, scoprendo che spesso la fantasia non doveva riempire proprio nulla, perché era tutto già lì. Il rientro in macchina silenzioso e stanco guardando il doppio naso creato da uno strano fenomeno di rifrazione nello specchietto retrovisore, restituiva l’atmosfera sognante della giornata.
Ricordo ancora più chiaramente le sensazioni, terribili, che mi hanno portato da bambino un po’ cresciuto a rivivere quei luoghi, che fino a poco prima erano stati solo spazi di immaginazione e respiro, in modo frettoloso e iper-organizzato: i corsi di sci che stagionalmente partivano e mi facevano entrare a far parte di un gruppo di ragazzini fiondati dietro a un uomo con la tuta blu e delle aste ai piedi.
Quando arrivava l’inverno, si sciava sugli impianti e tutto puzzava di diesel, era scomodo e freddo. Salire dalla città vestiti come palombari e raggiungere le piste aveva un sapore amaro, arrivare di fretta e togliere gli sci dalla corriera era la cosa più complicata, ma anche infilarsi il casco e partire con la camminata sincopata data dagli scarponi diventava, in poche settimane, un gesto automatico, quasi fosse fatto da qualcun’altro. Poi le due ore di lezione passavano veloci, difficile legare con qualcuno dei coetanei nelle brevi risalite sulla seggiovia, troppo intenti a non cadere e non morire congelati.
L’uomo con la tuta blu e la faccia scottata urlava e dava indicazioni, stai avanti, spalle a valle, sposta il peso. Qualche volta capitava di salire in seggiovia con l’uomo dalla tuta blu, quale emozione! Lui fumava e dondolava nel vuoto gli sci con un coraggio che non pensavo avrei mai potuto avere. E se si sganciano? E se gli cade qualcosa? Perché il carosello, oltre a girare inghiottendo bacchette, guanti e forse anche braccia e gambe, faceva cadere cose nel vuoto e non sempre era possibile recuperarle. All’arrivo la sbarra si alzava sempre con troppo anticipo ed io terrorizzato mi appiattivo indietro sul sedile gelato. Che quelle reti non mi reggono. Che poi se cado in quelle reti come faccio ad uscirne con sci incastrati, scarponi pesanti e ridotta mobilità data dalla tuta troppo grande perché ereditata da mio fratello maggiore? I piedi freddi, i guanti bagnati, le lingue attaccate al ferro gelato della seggiovia: sembrava una giostra infernale.
Durante le salite capitava di vedere qualche pazzo che a bordo pista saliva con gli sci non capivo come. Quando andavo con mio padre mi spiegava che cosa facevano, come lo facevano, nella mia testa rimaneva solo una cosa estremamente esotica: “pelli di foca”. E mi chiedevo cosa sono, come funzionano, che senso ha salire per fare solo una discesa? Ma dove le trovano le foche da spellare? Ricordo che dal modo in cui mio padre ne parlava rimaneva nell’aria una grande ammirazione e un rispetto smisurato.
Val di Fiemme
Unico momento che ricordo con piacere era quando, a fine lezione, si usciva dalle piste addentrandosi nel bosco rado. Sciare sulla neve fresca era un’impresa faticosissima, quasi eroica: provate voi a sopravvivere a storte date da sci che non si sganciano, a faccia nella neve, a tentativi di salti malriusciti. In quei momenti però prendevo coscienza dell’ambiente intorno, osservavo gli alberi, le tracce nella neve, i ghiaccioli sui pini profumati. Per alcuni istanti tornavo a guardare il mondo come un posto da esplorare e da attraversare con la sola forza del mio corpo e della mia immaginazione.
Poi di nuovo sulla corriera gelata, con la schiena un po’ sudata che si attacca al sedile, gli occhi arrossati, le nuvole di gasolio che tappano le narici.
Ho abbandonato lo sci alpino non appena ho potuto farlo, ho abbandonato anche la montagna per alcuni anni, mentre studiavo in giro, salvo salire in bivacco con zaini pieni di birre ogni volta che tornavo a casa, accendere fuochi, camminare su tizzoni ardenti e tuffarsi in fiumi ghiacciati con gli amici per dimostrare di essere giovani e forti.
Odiavo sentire le richieste insistenti fatte il sabato sera da mia madre che cercavano di distogliermi dal rifiuto. Allora sei sicuro? Non vuoi venire con noi? C’è anche Marco, Giulia, Antonio, Diletta può esserci chiunque ma non me ne frega un cazzo, voglio solo passare la mattinata a dormire.
Poi ho iniziato ad arrampicare in falesia, dove lo scopo era quello di stare insieme più che di fare grado, gli uliveti della zona lago diventavano dei veri e propri accampamenti, l’aria lì era diversa da qualsiasi altro posto, profumava di caldo e di sud. Ogni volta scendere in valle era come calarsi in un mondo di scoperte, vedere i tedeschi arrampicare con il caschetto e il secchiello e fare festa dopo le prime vie lunghe o i primi fallimenti di vie lunghe. Scoprire così il territorio, valli e paesi mai visti prima, imparare movimenti che sembravano impossibili, apprendere manovre e inventare un linguaggio nuovo fatto di dulfer, alè e grande mona.
La sensazione era quella di un mondo libero dove le regole del gioco andavano imparate mano a mano, grazie a qualche amico più esperto, grazie all’esperienza appresa lentamente, quasi si infilasse sottopelle.
Chi mi stava intorno aveva realmente coscienza del luogo in cui era, questa era la sensazione. Aveva una sicurezza di passo che solo chi ha investito l’intera infanzia a scivolare sui ghiaioni può avere. C’era la possibilità di riempire le montagne di significati personali perché si conoscevano talmente bene che non era necessario parlarne. Le montagne sembravano uno spazio vuoto fatto di verticalità che poteva essere riempito, assaporato, respirato.
Poi le vie in montagna, le normali, l’arrampicata trad, lo scialpinismo. L’andare in montagna, per me, è diventato col tempo un modo di sentirsi nel posto giusto al momento giusto, cosa meglio di una cima, che porta i tuoi passi da lontano proprio lì in quella precisa posizione, quasi che tutta la vita fosse stata vissuta per essere lì in quell’istante. La sensazione di sincronia e connessione: tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora.
L’arrampicata ed il mondo outdoor ha poi conosciuto un’espansione senza precedenti negli ultimi dieci anni grazie anche alle palestre e alle immagini spettacolari provenienti dai social. Molte persone hanno iniziato a spostarsi dalla città alla montagna dedicando la vita a questo amore improvviso che, lo capisco bene, una volta che ti coglie non ti lascia più. Questi elementi, combinati tra loro, hanno portato forse ad una professionalizzazione nel mondo della montagna, nella sua comunicazione, nella modalità di farne esperienza. Fino ad allora era un mondo rimasto selvatico, burbero e incomunicabile, espressione anche di un certo disagio interiore e di un bisogno di libertà che in altri ambienti era difficile esternare in modo così sincero e puro.
Monte Bondone, 1998
Ferrata dell’amicizia, 1996
Con chi vive la natura in modo attivo, attraversando catene montuose dormendo in tenda e accendendo fuochi al chiaro di luna si può essere franchi, ci si può lamentare di cosa in città non va bene, si può progettare una comunità differente legata ai ritmi della natura e rispettosa delle relazioni, si può perdersi in spazi immensi da riempire con la fantasia, salvo poi rendersi conto che la fantasia non deve riempire proprio nulla, perché è tutto già lì, sulle montagne e tra chi le frequenta. Le persone di montagna, come le montagne stesse, vanno avvicinate da lontano, è necessario conquistarsi la loro fiducia con tranquillità e con i fatti, senza troppe parole.
Una delle ultime tappe del rapporto con la montagna, che si è sviluppata solo recentemente, quando il tempo per andarci ha iniziato ad essere meno e gli stimoli e i compagni di cordata si sono persi tra famiglie, lavoro e nuove paure, sembra essere quella del raccontare la montagna. Ho l’impressione che fare qualche cima non basti più, che sia necessario andare a sciare, arrampicare e camminare in un certo modo, possibilmente come dico io. In questo atteggiamento riconosco una parte di nostalgico romanticismo ma anche una missione umanitaria. Se riuscirò a salvare anche un solo bimbo dalla macchina infernale degli impianti, dallo smog delle corriere delle località sciistiche le montagne saranno un passo più salve.
Magari riuscirò a convincere le famiglie che per andare in montagna ci sono alternative più lente e sensate. In Canada e negli Stati Uniti ci sono molte zone di wilderness in cui è possibile fare scialpinismo in tranquillità, magari con le piste battute, con la sola forza del proprio corpo e della propria volontà. Sogno montagne alla portata di tutti, purché questi tutti salgano con le proprie gambe. Perché la montagna illude e, se presa solo in discesa, può sembrare un parco giochi creando false sicurezze ed illusioni di sfruttamento.
L’impressione che ho oggi, da montanaro brontolone quale sono diventato, è che la montagna, anche per il fatto che sia frequentata da cittadini trasferiti, tenda a replicare le stesse logiche della città: sicurezza, possibilità di previsione, profitto, comunicabilità universale a discapito di tutto. Allora mi chiedo dove si sia spostato lo spazio vuoto che era possibile riempire allora con l’andarci?
Un’amica più giovane trasferitasi dalla città alla montagna mi dice che prova un’emozione fortissima andando in bici su strada, come se rinaturalizzasse questi luoghi urbani. Ci vede un atto di protesta forte e chiaro: sfida il mondo frenetico a rallentare e prendere la velocità dettata dai muscoli, vive gli spazi urbani come fossero delle distese naturali. Io la prendo in giro dicendole che è solo un ulteriore passo per ammettere che ha da poco superato i 30: la bici, le passeggiate intorno al lago, manca solo la narrazione di montagna e mi ha raggiunto. Forse anche lei, nata e cresciuta in città, sta diventando semplicemente una montanara brontolona.
Un amico che vive e lavora tra i monti da sempre mi dice che alla montagna, sempre più di moda, preferisce la campagna (pur sempre d’alta quota), dove riesce ad arrampicarsi sugli alberi invece che sulla roccia, dove può raccogliere frutti cercando di piantarne i semi. Sente il bisogno di evitare la montagna per rispettarla piuttosto che salire per godere dei suoi spettacoli impareggiabili.
In tutto il mondo stanno fiorendo zone di wilderness (divieto di accesso con qualsiasi mezzo motorizzato o elettrico) sempre più ampie. Molti gruppi anche nel nostro paese si stanno muovendo perché si radicalizzi il concetto di parco naturale o riserva.
Sono sempre più necessarie zone di wilderness, possibilmente collegate tra loro da corridoi naturali, dove sia possibile fare esperienza di natura selvaggia, dove il bosco torni ad essere gradualmente foresta primaria, dove la fauna torni a muoversi liberamente, dove la montagna possa esprimersi in tutta la sua spiazzante bellezza.
Io credo che la vetta del Monte Analogo non sia mai stata così vicina e che siamo sempre di più a volerla raggiungere. Allora combattiamo, camminiamo, corriamo, arrampichiamo e sciamo per raggiungerla e perché no, visto che dopo i 30 non siamo buoni a far altro, cerchiamo di narrarla coi mezzi che abbiamo!
Mi piace molto come evochi le immagini e dai forza ai concetti. Penso sia molto importante parlare di wilderness. Sarò curiosa di leggere i tuoi prossimi articoli!
Grazie mille Gaia!
Mi hai riportato alla mente le emozioni dell’infanzia! Bravo!
Grazie Giordano!
Bello!
Grazie Leonardo, quanti ricordi nella prima parte del tuo racconto!
La seconda puntata mi mancava completamente perché poi ci siamo visti poco.
Ciao grande scrittore e amante della natura !
Piero