Reportage

#37 SULLE VETTE DEL MONTIFERRU

testo e foto di Salvatore Cotzia  / Cagliari

13/12/2020
8 min
Il Bando del BC20

Sulle vette del Montiferru

di Salvatore Cotzia

Esco di casa che è ancora buio ed ho addosso il desiderio di fuggire dalla monotonia alla quale il confinamento da COVID mi ha costretto fino a ieri.

Sembra quasi paradossale che il desiderio di libertà mi porti ad isolarmi dal mondo sulle vette del Montiferru. Nei giorni scorsi, mentre studiavo un nuovo percorso sulla mappa scegliendo i sentieri meno battuti, montava quella frenesia da conto alla rovescia che ora si dissolve con il primo passo fuori casa.

Parto, le prime luci dell’alba rischiarano il mare calmo e silenzioso dal quale mi allontanerò per venticinque chilometri salendo un dislivello di circa 1100 metri. Decido di iniziare la traccia del percorso dal sito archeologico di Columbaris, cammino sui resti perimetrali delle tre basiliche della prima Cristianità, ammiro il battistero del III secolo, ma non mi soffermo ad immaginare la vita che animava questi luoghi due millenni fa. Gli scarponi hanno bisogno di macinare sentieri quindi inizio a salire.

Percorro un primo breve tratto di strada cementata e i raggi di un sole pallido che inizia ad affacciarsi dalle vette mi regalano la prima emozione della giornata accendendo una coperta di ragnatele che avvolge l’intera campagna circostante. L’umidità nell’aria imperla fili solitari che una leggera brezza trasporta da un lato all’altro della strada. Mi fermo per immortalare bellissimi ragni dai colori accesi e i primi coleotteri gioiello, verdi e dorati, che iniziano a popolare i fiori del cisto, stasera chiederò al mio gruppo di entomologia un’identificazione.

Il passaggio dalla strada al sentiero sterrato segna l’inizio del trekking, incrocio l’unica persona che vedrò nell’arco dell’intera giornata, un pastore con una decina di capre al seguito col quale scambio due parole e un saluto. Non sentirò più la mia voce fino a sera.

I passi diventano più sicuri e le gambe ricordano la fatica. Man mano che si sale la vegetazione inizia a cambiare, dalla macchia mediterranea bassa tipica delle zone costiere sferzate dal vento, si passa ad arbusti più alti ed ai primi lecci. Scorgo in lontananza “su Palatu”, un edificio del XVI secolo di cui restano i ruderi. Per raggiungerlo occorre discendere a valle fino al letto del torrente Fanne Anzone e risalire il pendio opposto. In questo tratto faccio il mio primo bagno nella ginestra, il sentiero infatti sparisce sommerso da alta vegetazione e mi devo fare largo a bracciate tra steli verdi e fiori di un giallo brillante. Dopo qualche centinaio di metri ritrovo la mulattiera, i ruderi non sono più visibili e mi occorre qualche minuto per orientarmi.

Riprendo a salire finché mi compaiono davanti all’improvviso i resti di una costruzione a due piani con la sua ampia corte, lo stupore aumenta quando voltandomi vedo sotto di me l’intera costa della marina di Cuglieri e più a sud il Sinis e gli stagni dell’oristanese. Il panorama è mozzafiato. Mi siedo a meditare sulle rovine. La costruzione era sicuramente di pregio e mi chiedo se sia stata edificata da qualche signore locale che da qui avrebbe potuto controllare l’intera vallata e la costa, o se sia appartenuta ad un ordine religioso ispirato da sensazioni quasi mistiche simili a quelle che sto provando mentre mi perdo ammirando l’orizzonte.

Mi costringo a rimettermi in cammino, rinfrancato prendo il sentiero verso punta Conca ‘e Mele che mi porta al valico di Funtanas. Da qui la vista spazia lontano sulla costa nordoccidentale fino alle falesie di Capo Caccia, una leggera foschia mi impedisce di vedere in lontananza le bianche scogliere, forse avrò più fortuna quando sarò in vetta, per ora mi concedo un ultimo sguardo sul mare prima di addentrarmi nel fitto bosco. Il sole è ormai alto e l’ombra dei grandi lecci mi concede ristoro. Sento un inequivocabile rumore di animali di buona taglia, attendo qualche minuto immobile e in perfetto silenzio sperando di vedere un cervo o un cinghiale ma rimango deluso.

Sconsolato proseguo fino alla fine del bosco e trovo un breve tratto di asfalto che mi affretto a lasciare appena scorgo un cartello che indica un “percorso didattico naturalistico”. Considerata la vicinanza alla strada e la presenza nei dintorni del Nuraghe Ruju, immagino che questa fosse una meta per scolaresche, lo confermano diversi cartelli illustrativi che descrivono le proprietà di alcune piante e le caratteristiche di alberi e arbusti. Si intuisce tuttavia che da tempo i bambini non guardano più curiosi le illustrazioni che, sbiadite e strappate, danno un senso di abbandono.

Passeggiando tra lecci, roverella, quercia da sughero e corbezzoli, arrivo al rifugio di Birdambulis. Nonostante non si veda nessuno qui attorno e le griglie che richiamano profumi di arrosto siano spente, non voglio rischiare di imbattermi in qualche chiassoso gitante della domenica, quindi assecondo il mio bisogno di solitudine e dopo aver riempito la borraccia riprendo il cammino nel bosco che si fa sempre più rado. Mi ritrovo quasi subito a camminare in uno spettacolare campo di digitale. Il rosa dei fiori a campana riempie gli occhi ma respingo la tentazione di tuffarmici sopra considerata la pericolosità della pianta.

La foresta pian piano lascia spazio ai vasti prati e in lontananza si sente il rumore di un trattore. Si vedono le prime conifere, ma perlopiù il sentiero si riempie dei fiori bianchissimi e rosa del cisto, del giallo della ginestra e del viola del cipollaccio. Il ronzio degli insetti impollinatori è costante. Passando sotto Monte Petrosu ammiro ancora una volta rocce dalle strane conformazioni e voltandomi verso Ovest le cupole fonolitiche che caratterizzano il complesso montuoso del Montiferru.  Tra tutte svetta Monte Entu e mi torna in mente una pagina del diario di Alberto La Marmora. Lo immagino in piedi sulla vetta con la sua strumentazione mentre dal basso alcuni cacciatori lo convincono a scendere per condividere le prede della giornata e indulgere a più di un bicchiere di buon vino. Mentre mi perdo nei miei pensieri ammiro il paesaggio attorno a me, in lontananza gli abitati sembrano piccole macchie di tegole in mezzo al verde e tutta la costa della Sardegna occidentale è di nuovo davanti ai miei occhi. Non mi stancherò mai di questa vista.

Poco prima dell’arrivo alla tappa per il pranzo mi blocco nel vedere decine di gabbiani che si alzano improvvisamente in volo, forse lo stupore o forse la velocità dell’evento mi impediscono di scattare una fotografia. Cosa fanno i gabbiani qui a mille metri? Continuo a cercare una spiegazione finché scorgo un grande vascone antincendio pieno d’acqua fino al bordo. Guardando in prospettiva l’acqua della vasca che si staglia in linea con l’orizzonte sembra quasi non ci sia soluzione di continuità con l’azzurro del cielo. In alto a perpendicolo bianche ali disegnano cerchi nell’aria attendendo che io mi allontani per tornare a posarsi sull’acqua.

Pochi metri e arrivo alla sorgente di Elighes Uttiosos, l’acqua sgorga in prossimità delle radici di un paio di grandi lecci, da qui il nome della fonte la cui traduzione è “lecci gocciolanti”. Lo stomaco brontola, mi siedo su una roccia ed apro lo zaino, avvolti in un fazzoletto che mi farà da tovaglia ci sono un pezzo di pane, del formaggio e un po’ di frutta che saziano la mia fame. All’ombra degli alberi e con il sottofondo dell’acqua che scorre mi stendo sul terreno morbido e finisco per addormentarmi. Vengo svegliato qualche minuto dopo dalla voce di due ciclisti che devono essermi passati a fianco. Sollevo la testa dallo zaino e lo rimetto in spalla, un po’ d’acqua fresca per svegliarmi completamente e riparto.

Valicato il punto più alto del percorso si inizia a scendere rapidamente, alcuni tratti del sentiero sono molto ripidi e bisogna prestare attenzione. Alla mia sinistra i basalti colonnari di Sos Segados dominano dall’alto e una vicina vetta suscita la mia curiosità. Sembra che una grossa sezione di roccia sia implosa lasciando una voragine circolare, resto un po’ interdetto perché difficilmente la fonolite consente fenomeni carsici, quindi nella mia mente partono ipotesi improbabili. Considerata l’origine di queste montagne potrebbe essere un’antica caldera vulcanica, oppure il risultato dell’erosione, ma più probabilmente si tratta solo di un gioco di luci ed ombre che dalla mia prospettiva pare disegnino un cratere. Mi ripropongo di farne meta di una futura escursione esplorativa.

Con lo sguardo ancora rivolto all’insù mi ritrovo sotto una barriera di rovi, dietro di me il sentiero è ancora evidente ma non c’è modo di proseguire. Decido di spostarmi verso un tratto roccioso sebbene non vi sia alcun segno di passaggi precedenti e mi calo dentro ad un ampio canalone di roccia. In periodo di piena il Riu Sos Molinos mi avrebbe creato qualche problema nell’attraversamento. La circostanza è però fortunata perché nonostante la temporanea preoccupazione la cornice è meravigliosa e riesco subito a ritrovare la strada.

Le difficoltà comunque non sono finite, il sentiero da qui è per lunghi tratti invaso dalla vegetazione ed è difficile liberarsi da rovi e salsapariglia. Non ho con me attrezzi da taglio che possano aiutarmi, l’unica soluzione è proseguire cercando di limitare i danni a qualche graffio. Procedendo più ad intuito che a vista sbuco in una piccola area aperta, una sorta di anfiteatro naturale con al centro un’affascinante capanna a due piani su un albero affacciato su un dirupo. Mi avvicino circospetto, non sembra esserci nessuno, lo stato è un po’ di abbandono ma non è stata dimenticata, lo testimoniano i resti di un vecchio fuoco presso il bordo del precipizio. Accostandomi per controllare sento il rumore dell’acqua e sporgendomi vedo una piccola cascata. Chi ha costruito la capanna ha scelto un posto da favola.

Non riesco a ripartire, vorrei vivere qui, ma guardo l’orologio e mi infilo di nuovo nella vegetazione che copre il sentiero. Durante la discesa mi avvicino sempre più al torrente e una volta raggiuntolo decido di seguirne il corso alla ricerca di un sentiero più agevole. Arrivo ad un’ampia sterrata e verifico sulla mappa che si tratta dell’ultima parte del percorso che mi condurrà, dopo un tratto d’asfalto, alla degna conclusione di questo magnifico viaggio: la cascata di Sos Molinos.

Il sentiero in discesa per la cascata è molto bello e una volta arrivato alla base la sensazione di pace è totale, come pure l’appagamento da fine cammino. Ho ancora la fortuna di esser solo ad ammirare in tranquillità il salto, l’aria è carica d’umidità e gli schizzi mi rinfrescano e lavano via la fatica. Nei prossimi giorni gli amici mi chiederanno il perché di un mio inaspettato sorriso, non risponderò, continuando a pensare ai magnifici scorci ed alle forti sensazioni di questa magnifica giornata.

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foto:
1. 
Montiferru, panorama da Su Palatu

2. La capanna sull’albero di Bau Mela
3. Cascata di Sos Molinos

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Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020.

Salvatore Cotzia

Salvatore Cotzia

Cammino sui sentieri del Mondo alla scoperta di luoghi e culture che arricchiscano le mie esperienze di vita. Viaggio da solo o in compagnia di amici che come me amano il trekking e spesso ne sono dipendenti.


Il mio blog | Il blog sardegnatrekking.com nasce dall'esigenza di condividere le esperienze sui sentieri della Sardegna. L'intenzione è di far conoscere a chi legge le meravigliose alternative che l'isola offre, in tutte le stagioni, alle pur spettacolari spiagge. Conoscere il territorio significa calpestarlo e relazionarsi con chiunque si incontri lungo il cammino.
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