Ci accolgono due pastori, marito e moglie. Avvezzi a ciò che per noi era una scomoda novità – accantonare la nostra abituale autosufficienza ed essere costretti a cercare rifugio- mettono a disposizione tutto quello che può darci immediato sollievo dopo ore di pioggia sferzante: dei letti a castello, un fuoco, tè fumante.
Disfiamo gli zaini, ci cambiamo i vestiti zuppi. Sfinita, guardo i calzettoni appesi al camino sgocciolare. Mi chiedo se l’omino del meteo annunciasse, con allarmismo compiaciuto, le previsioni alle Aquile Randagie: se anche in loro, un tempo, si confondessero fenomeni atmosferici interni ed esterni. O se l’urgenza di portare in salvo i perseguitati dal regime mettesse a tacere senza distinzioni ogni moto interiore superfluo, ogni frivola distrazione dall’impellente missione che si erano dati, dando retta esclusivamente alla verità muscolare del loro corpo in fuga. Mi rispondo da sola. La clandestinità nella quale operavano richiedeva l’essenzialità di spirito, non erano previsti indugi, esitazioni, ma una buona capacità di improvvisazione sì.
Si può organizzare una route magistralmente, preparando una tabella di marcia dettagliata nel prevedere orari di arrivo e partenza, i tempi di percorrenza con uno zaino carico del necessario a sopravvivere una settimana in una valle chiusa e nascosta, le soste, il meteo, l’andatura più lenta di alcuni. Si può organizzare l’espatrio di persone in pericolo magistralmente, creando documenti falsi, studiando i sentieri di montagna meno battuti, viaggiando di notte, incoraggiando, con una busta di denaro, il doppiogiochismo di guardie e sentinelle, usando messaggi in codice, agendo nella massima segretezza.
L’imprevisto, però, non è programmabile. Subdolamente puntuale quanto un temporale estivo, sprona ad essere sempre pronti, che si tratti di montagna o di prendere posizione. È questa l’eredità più grande che le Aquile Randagie ci hanno lasciato.
Ora che le nostre membra non sono più così intirizzite e che l’adrenalina ha lasciato spazio alla stanchezza, la fame non è più una preoccupazione secondaria. Cuciniamo con i fornellini le nostre buste di riso liofilizzato, frettolosamente, senza avere la pazienza di aspettare che l’acqua evapori del tutto.
Nell’atmosfera silenziosa della lunga stanza in pietra, rotta solo dal borbottio delle gavette sul fuoco, balugina la consapevolezza di averla fatta franca, per questa volta. Sappiamo, infatti, che verremo messi alla prova ancora, durante i rimanenti giorni di route. Ma se intimamente avessimo desiderato la tranquillità e la comodità, saremmo rimasti a casa a combattere lunghi e afosi pomeriggi estivi, non avremmo scelto di partire.
Trascorsa la notte al coperto riparati da un tetto in pietra e non dal soffitto di tela delle tende igloo, dopo aver a lungo ringraziato i nostri ospiti e cercato di sdebitarci, oltre che con la gratitudine, acquistando i prodotti del loro antico lavoro di pastori, abbiamo ripreso il sentiero che, attraverso le gallerie e i binari abbandonati del Tracciolino ci ha condotti, finalmente, in Val Codera.
A Codera, nel piccolo cimitero accanto alla targa che ricorda l’aquila randagia Andrea Ghetti, soprannominato Baden, leggeremo:
Ciò che noi fummo un dì
voi siete adesso
chi si scorda di noi
scorda se stesso!
Camminare in quella valle è, per uno scout, voler rinnovare e risignificare la memoria con i propri passi, ripercorrerla e risalirla fino alle sue manifestazioni più tangibili. La memoria è davvero come una montagna, richiede di essere affrontata per poterla fare propria. Camminare in quella valle è, per noi, voler ribadire una scelta, una promessa pronunciata furtivamente quasi un secolo fa.
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foto:
1. Il Clan Parma 8 davanti alla base scout La Centralina, Codera
2. In cammino
3. Nella baita sul Monte Bassetta