Il varco è qui.
testo e foto di Andrea Nicolussi Golo
È la mia Montagna. Da quando ho compiuto sette anni e sette mesi, da allora di anni ne sono trascorsi più di cinquanta, io so che questa è la mia Montagna. E mi ha aspettato. Ed è qui.
Non viene mai sera che io non ne abbia scrutato almeno per una volta le ghiaie che salgono a lambire la parete nord e quindi la vertigine che si alza nuda contro il cielo e poi i pendii erbosi che incorniciano la respingente parete ovest e verso est i fianchi dolci, che si arriva in cima apparentemente senza fatica e il lato sud con le sue coste aspre e scoscese, coperte da un impenetrabile intrico di mughi. Non viene mai sera che io non mi sia avvicinato anche di un solo passo alle pendici della mia Montagna e benché, dopo tanto tempo, io non sappia ancora quale sia il versante che dovrò affrontare, so però di non potermi sottrarre alla sua maledizione. Ma sono forte e determinato perché io so; non vi sono altre vie. La Montagna è il giogo. Il varco è qui.
Dal giorno in cui ho compiuto sette anni e sette mesi, era allora d’estate, mi appronto a salire una delle vie che portano alla vetta, da più di cinquanta anni aspetto il momento e mi preparo all’impresa con una dedizione ossessiva e totalizzante.
Chi mi è vicino consola questo mio insensato, perenne struggimento, ma non può intuire che la benché minima parte della mia inquietudine.
Quel giorno, a sette anni e sette mesi, mi colò dagli occhi all’anima la consapevolezza che sarei stato per sempre aggiogato alla Montagna e che il cammino per affrancarmi e essere pronto a salirvi sarebbe stato lungo; oggi però, guardando all’indietro i miei passi, capisco invece, quanto in realtà fosse breve.
A sette anni, sette mesi e sette giorni ho incominciato il mio primo esercizio propedeutico alla salita: premendo i pugni contro le palpebre creavo mondi di luce nera.
Era di nuovo estate allorché, solo sui pascoli, sotto un cielo di lamiera, legavo un fazzoletto di mia madre sugli occhi, lo stringevo così forte da procurami un dolore rosso dentro al quale sfere iridescenti saettavano in un vortice di neve scura. Rimanevo così, seduto e immobile sino a che il dolore scolorava poi, bendato, incominciavo i miei doveri: pulivo la stalla, riempivo il trogolo al maiale, chiamavo a baita le mie vacche. Le buone bestie in quei momenti sembravano comprendere che stavo imparando la Montagna, perché non si lasciavano andare alle loro solite mattane, non si rubavano il posto alla greppia, non incrociavano, per gioco o per sfida, le corna, non cercavano di razziare il sacco del sale, docile ognuna andava al proprio posto e aspettava quieta che a tentoni io trovassi la catena per legarla. Ecco la Montagna! Urlava una voce che non era la mia e che mi riempiva di terrore.
Ecco la montagna! L’urlo scuoteva la lamiera del cielo e increspava l’acqua delle pozze.
Maturato il tempo, slegavo il fazzoletto, respiravo forte e guardavo; io c’ero e la Montagna c’era, sempre uguale, sempre alla stessa distanza, inavvicinata, la voce allora si taceva e arretrava di un passo la paura. La luce di luglio, il ridere lieve dell’erba solleticata dal vento, la cipria colorata delle farfalle, il festoso brusire del bosco ripacificavano l’anima.
Il varco è qui.
Forse più agevole era un diverso accollo; insonne, di notte rimbalzavo di stanza in stanza, ebbro di oscurità sbattevo come una falena contro la poca luce che filtrava dalla strada. Costretto in quella luce di catrame, scendevo nella cantina dei salami, mi chiudevo la porta alle spalle e lasciavo che tutto il buio si stringesse attorno a me. Cercavo allora con le mani di riconoscere i barattoli riposti sulle scansie; il barattolo dello strutto, quello della marmellata di sambuco, differente da quello della marmellata di prugne e differente dal barattolo del miele di tarassaco, differenze appena percettibili, che cercavo di interpretare. Senza vedere, aprivo i barattoli intingevo il dito e assaggiavo. Tante volte sono rimasto sopraffatto portando alla bocca essenze amare, inimmaginate, erano assenzio, ginepro, resina di larice o arnica o rabarbaro, le volte che accadeva mi sentivo sconfitto e ripetevo l’esercizio da capo. Dopo un po’ perdevo l’orientamento e il sopra diventava il sotto e l’alto il basso, esplodeva allora l’urlo di quella voce muta che mi terrorizzava: “Ecco la Montagna!”.
Nell’istante in cui l’urlo mi travolgeva svuotavo dell’aria i polmoni per tornare a riempirli come fosse l’ultima volta, annaspando aprivo la porta, lottando con il respiro correvo le scale e uscivo nella notte. Ho camminato tanto in quelle mie notti bambine, ho ascoltato il bubolare del gufo e lo squittio della civetta e altri suoni di cui non sapevo la provenienza, balbettii, lamenti, frulli, passi. Poi, appena tutta la natura si zittiva per ascoltare il mio tacere e puro spirito faceva rabbrividire le betulle, il cuore rallentava la sua corsa, tornava a imporsi il respiro e gli occhi a vedere; indagavo così il muoversi delle stelle, vegliavo il pascolo dei caprioli, scoprivo il furtivo infrattarsi della volpe che discretamente mi teneva compagnia. Era ancora lontana la Montagna.
Andavo già alla scuola fuori dal paese il mattino che mi inventai l’esercizio più folle mai azzardato da un salitore di montagne. Sotto alla nuova strada passava una condotta di raccolta dell’acqua piovana, lì decisi che mi sarei sepolto vivo, pensavo che quello fosse un ottimo esercizio per imparare la Montagna.
L’intero paese si mise alla ricerca del bambino perduto.
Me ne sono rimasto in quel modo, sotterrato, senza dormire senza vedere nulla di là delle mie mani, per tre giorni e tre notti, cibandomi solo dell’urlo.
La Montagna! Incomincia a salire!
Ingerii l’urlo fino a che il naso e gli occhi si riempirono di muco e la gola di sangue, deglutii sangue e muco e lentamente strisciai fuori dalla mia volontaria sepoltura. Giurai di lasciare a testamento di non voler essere mai più sepolto. Neppure da morto.
Misi me ad arrampicare.
Nelle notti più fredde dell’anno salivo sul ramo più alto del grande larice.
Dopo quel giorno, misi me ad arrampicare. Arrampicavo a piedi scalzi, non avevo altro. Arrampicavo qualsiasi cosa fosse in verticale, se dovevo morire volevo farlo alla luce del sole con i falchi a farmi corona; ero certo che se un giorno fossi caduto avrei volato con loro incontro al cielo. Arrampicavo il muro del cimitero, quello del campanile, arrampicavo gli alberi, e i pali di legno del telefono, i cancelli di ferro, arrampicavo le poche rocce che si possono trovare sull’Altipiano. Arrampicando la paura della Montagna scompariva, l’urlo non arrivava. Non arrivò neppure quella volta che gli appigli sulla parete finirono d’improvviso e la roccia si fece vetro, specchio della mia disperazione. Rimasi immobile a lungo, la bocca secca e il sudore che piano allentava la presa delle mani; e il silenzio. Mi lasciai cadere felice di aver avuto per una volta ragione dell’urlo. Con le braccia aperte per un istante lungo come una vita intera ho volato cercando il posto meno pauroso dove toccare terra.
Alla fine del volo mi strinsi tra le braccia; in opposizione alla mia vita che disertava, mi impregnavo della vita che mi stava attorno, erano lucertole e cavallette, erba, fiori, erano formiche e vermi, era la mia terra odorosa di stalla e di latte, era utero ospitale nel quale rinascere. Mi sentii raccolto da quelle vite e stetti a lungo nel loro abbraccio materno cercando di capire se quello fosse l’ultimo abbraccio o se avessi vissuto ancora. Per un po’ ho temuto l’urlo spaventevole, ma l’urlo non venne, così piano mi sollevai in ginocchio. Guardai se vi fosse sangue attorno, non c’era sangue. Mi alzai in piedi, stetti per un po’ incerto, incapace di fare un passo, poi incominciai a correre. Una nuova felicità mi prese, potevo vincere l’urlo, un giorno avrei salito la Montagna senza troppo dolore.
L’uomo che da lontano mi vide volare non si avvicinò, forse perché, come le mie vacche, sapeva che mi stavo preparando a qualcosa di terribile o più probabilmente, perché era meglio non avere nulla a che fare con un ragazzino spezzato, già folle di suo.
Affinata la mia capacità di arrampicare, mi preparai a sopportare il freddo, la montagna doveva essere fredda. Il freddo era, se possibile, ancora più doloroso di tutto quello che avevo provato sino a quel momento. Incominciai a seppellirmi nella neve, ma scoprii ben presto che la neve era calda, allora nelle notti più fredde dell’anno salivo sul ramo più alto del grande larice e stavo fisso sino a perdere la sensibilità degli arti e gli occhi si ghiacciavano ed era impossibile chiuderli e non vedevano più nulla. L’urlo mi straziava: “É così la Montagna è questo che dovrai sopportare!” Il sangue usciva dal naso e dalle orecchie e ghiacciava in grumi nerastri. Resistevo.
Intrapresi a vivere con fatica; vivere con fatica mi insegnava a salire.
Anche il lutto divenne parte del mio tirocinio. La morte della più amata, sepolta alla vigilia di Natale perché il dolore distillasse in purezza. Nessuno sconto.
Oggi ho quasi sessanta anni, vedo vicina la Montagna e non ci vedo quasi più.
Avevo sette anni e sette mesi il giorno della catastrofe.
«L’occhio destro è perduto e presto anche il sinistro». Sentenziò il primario dell’Ospedale Santa Chiara. La stessa sentenza venne confermata in appello dal celebre chirurgo che a Milano trapiantò le cornee di Don Gnocchi: «Sarà completamente cieco è solo una questione di pochi mesi, forse di poche settimane o di giorni».
Per più di cinquanta anni ho chiamato per nome la mia Montagna ultima: cecità, ogni giorno ne ho intravisto i sentieri e decifrato i presagi. Ci sono state stagioni in cui temevo di dover salire la vertiginosa parete nord, altre in cui ero certo che avrei camminato al sole sui pendii a est o forse di perdermi tra i mughi del lato a sud. Per più di cinquanta anni ho camminato avvicinandomi alla Montagna colorata di buio. Fino a quando avrei visto i volti amati e l’alba?
È luce pietrificata la cecità. Neve fossile. Cielo minerale.
Io so. Io sono qui ora. Salgo la mia montagna. Non ho più dolore. Non ho più paura.
Ad Anna Maria Rigoni Haus che mi disse un giorno: “Dovevi avere degli occhi molto belli”.
Mi inchino al mago delle parole.
Direi piuttosto il clown bianco delle parole. Però grazie Marco.
La montagna è soprattutto sofferenza..la vita è sofferenza..
La tua montagna è…la vita. La tua montagna è sofferenza che insegna. La tua montagna apre occhi chiusi da paura ed egoismo e li apre solo chi vuol davvero vedere. Grazie Marco
Ciò che tutti i ragazzi han voluto provare per crescere, per conoscere, per imparare… L’essere in montagna ti ha accolto e ti ha protetto.
Dentro di te vi è un fiume di energia inarrestabile che ti ha fatto vincere la battaglia nel terreno più difficile: ora non hai più dolore e non hai più paura.
Tu sai distillare bellezza.