Reportage

Condividere le difficoltà

Esperienze post alluvionali sul confine tra Zoldo e Cadore: Forcella Cibiana, Monte Rite, Fornesighe e Col Duro. "L’idea della vacanza era svanita, ora c’era il desiderio di vedere i luoghi della montagna in un momento drammatico, almeno per condividere le difficoltà del momento".

testo e foto di Gabriele Villa  / Ferrara

19/11/2018
8 min

Questo reportage di Gabrile Villa sul maltempo che ha colpito le valli al confine tra Zoldo e Cadore si aggiunge agli altri che abbiamo già pubblicato su Rocca Pietore e il Feltrino per il Bellunese, sulla Valcellina e il Tarvisiano per le montagne del Friuli Venezia Giulia.

– la redazione di altitudini.it

Avevo immaginato di trascorrere il ponte dei primi di novembre in uno dei pochi rifugi aperti in questa stagione di trapasso che, non a caso, chiamano stagione “morta”.
Avrei voluto condividere l’idea con amici, ma sarebbe servito un meteo favorevole, sicché avevo iniziato a guardare per tempo le previsioni meteorologiche. Non volevo credere ai miei occhi mentre leggevo le peggiori previsioni concentrate proprio nei giorni immediatamente precedenti il “ponte” novembrino, con piogge forti e insistenti, evocando addirittura “criticità alluvionali”. Alcuni siti meteo sono stati spesso criticati dagli operatori turistici e alberghieri per previsioni “troppo” pessimistiche che possono scoraggiare i turisti a discapito delle attività commerciali connesse al settore. La meteorologia non è scienza esatta, però quelle previsioni non le avevo sottovalutate, solo ne avevo scaricata un’immagine come promemoria verificabile a posteriori. Domenica 28 la piovosità aveva fatto registrare apporti fuori norma e lunedì 29 ottobre era stata una giornata di tregenda, apice devastante di un periodo di piovosità che aveva messo in allerta quasi tutto il nord Italia. Dunque, “criticità alluvionali” non era stata terminologia azzardata e, forse, non se ne era usata una più grave perché eventi così catastrofici, in contemporaneità con venti fortissimi, non si erano mai verificati prima con queste intensità.

Mi erano tornati alla mente i ricordi del novembre 1966, vissuti attraverso i racconti di mia madre che era partita da Ferrara alla volta di San Tomaso Agordino, preoccupata per la sorte dei suoi fratelli e sorelle residenti nelle frazioni di Pecol e Piaia, compiendo un viaggio, surreale in mezzo ad una catastrofe alluvionale di proporzioni tragiche. Allora non c’era la rete informativa attuale che, nonostante i danni alle linee elettriche e telefoniche, è riuscita a fornire attraverso internet e i vari social media, un’informazione abbastanza dettagliata e in tempo quasi reale. In agordino, i miei cugini e i vari amici non rispondevano al telefono ed era stato impossibile avere notizie, ma non era il caso di reagire d’istinto (come aveva fatto mia madre allora), soprattutto perché le notizie riferivano di uno stato della viabilità con gravi problematiche. Ero riuscito a comunicare solamente con gli amici Andrea e Lara, gestori del rifugio Remauro a Forcella Cibiana per sapere che erano raggiungibili dal versante cadorino, salendo da Venas, mentre permanevano alcune interruzioni sulla strada della val di Zoldo, salendo da Longarone. L’idea della vacanza era svanita, ora c’era il desiderio forte di andare su a vedere i luoghi della montagna in un momento drammatico, se non per dare una mano, almeno per condividere in qualche modo le difficoltà del momento.

Giovedì 1 novembre il tempo era ancora brutto, ma non pessimo, così siamo partiti in quattro sotto la pioggia a tratti anche forte; gli accordi di massima tra noi erano stati quelli di arrivare a Longarone, valutare sul posto se ci fossero state le condizioni di sicurezza per proseguire, in caso contrario fare dietro front e ritornare verso casa. Durante il viaggio la pioggia non aveva mollato, ma il vento era scemato, dopo i disastri che aveva causato nei boschi dolomitici nei giorni precedenti. Così ci siamo fidati preferendo però di salire per il Cadore, anche se pure la strada zoldana era data percorribile. Siamo arrivati senza problemi, solo con strade non troppo pulite causa acqua fangosa, qualche detrito e residui di lavori dove erano stati rimossi gli alberi caduti sulla sede stradale. Uno smottamento nell’abitato di Cibiana di Cadore era stato facilmente evitabile, deviando in un parcheggio che consentiva di aggirare la massa di terra scesa sull’asfalto. Il rifugio Remauro era aperto e funzionante perché dotato di generatore di corrente autonomo, mentre il paese di Cibiana era ancora elettricamente isolato.

i ricordi del novembre 1966, vissuti attraverso i racconti di mia madre
Alberi sradicati dal vento lungo la strada tra Forcella Cibiana e Fornesighe; abeti riversi sul sentiero per forcella di val Inferna; ingresso di Fornesighe; come un “ferro da stiro” il vento è passato tra i boschi di Zoppè di Cadore; Il vento ha scavalcato il versante è ha abbattuto gli abeti.

Venerdì 2 novembre abbiamo deciso di salire verso il monte Rite, perché era impensabile affrontare qualsiasi sentiero per via del terreno impregnato di acqua delle piogge dei giorni precedenti. Ci saremmo fatti largo tra i rami degli alberi caduti con un paio di seghetti, cesoie da potatore e guanti da lavoro, portati da casa. Nonostante la pioggerella iniziale siamo riusciti con tenacia ad arrivare al rifugio Dolomites a quota 2.160, trovando anche un discreto strato di neve fresca caduta il giorno prima. Nel salire abbiamo incontrato un po’ di tutto, dal franamento iniziale della strada che è percorsa dalle navette che portano i turisti al Museo del Rite, allo smottamento di un prato poco più avanti, ai parecchi alberi sia sradicati che spezzati dal vento, macigni rotolati sulla strada, piante secche precipitate dalle scarpate sopra strada, piccole frane a bordo della massicciata stradale, provocate sia dalle radici delle piante rovesciate che da infiltrazioni di acqua di scolamento. Abbiamo documentato tutto con varie fotografie e contato sul percorso un totale di trenta criticità tra piante, macigni sparsi, frane e smottamenti. Non potevamo certo immaginare che quella documentazione sarebbe stata molto utile agli operatori della Protezione Civile locale con cui abbiamo avuto occasione di parlare la sera una volta rientrati al rifugio Remauro. Durante la giornata avevano operato sulla strada che scende a Forno di Zoldo e per il giorno dopo avevano in programma di rendere agibile proprio la strada per il monte Rite sulla cui cima sono installate varie antenne e ripetitori. Servivano informazioni precise sulla percorribilità della strada da parte dei mezzi operativi e sulla tipologia di problemi cui rimediare e le nostre foto erano state una manna per fare un quadro preciso di cosa avrebbero trovato. Le nostre fatiche di giornata si erano dimostrate preziose e, ovviamente, per noi era stata una grande soddisfazione poterci rendere concretamente utili alla Protezione Civile.

Sabato 3 novembre, vista la pioggia del giorno prima, abbiamo prudentemente scelto di scendere sulla strada asfaltata verso Fornesighe, dove abbiamo amici che era stato impossibile raggiungere al telefono nei giorni precedenti. Lungo la strada i danni e i disastri sono apparsi più evidenti rispetto alla zona boschiva del monte Rite, soprattutto in alcune fasce evidentemente percorse dalla “frustata” ventosa che ha abbattuto, sradicato e spezzato i tronchi con la sua furia distruttiva. E’ stato interessante osservare l’effetto dell’acqua nel formarsi di frane e smottamenti con il suo scorrimento sotto la cotica erbosa del sottobosco. In paese erano tutti indaffarati, parecchi erano sui tetti delle case a riparare i danni procurati dal vento. E’ ammirevole la forza morale di queste persone, da sempre abituate ad arrangiarsi, ad aiutarsi quando possibile, a collaborare tra loro. Caratteristiche che diventano ancora più preziose in momenti di difficoltà grave come quello appena vissuto.

Domenica 4 novembre abbiamo provato a inoltrarci nel bosco dopo la buona giornata precedente e il meteo favorevole, con la speranza (ma non la convinzione) di poter arrivare in cima al Col Duro, a quota 2.033 metri. Siamo partiti a piedi dal rifugio Remauro per raggiungere la località Quattro Tabià e da lì inoltrarci nel bosco per il sentiero. Abbiamo notato che non tutti i versanti sono stati colpiti dal vento in modo uniforme: a tratti sembra che sia passato un grande “ferro da stiro” a piegare tutto ciò che sporgeva dal terreno, altre volte sembra l’effetto di un vortice che gira senza direzione precisa, altre ha spezzato i tronchi come fosse stato il calcio di un gigante, altre ancora si sono creati cumuli di tronchi incrociati tra loro) come colpiti da un effetto domino. Non abbiamo trovato devastazione ma la situazione complessiva dopo tre ore di cammino, alternando seghetto e cesoie senza soluzione di continuità, l’abbiamo considerata peggiore delle aspettative. In ogni vallone dove l’acqua aveva potuto scorrere si trovano depositi di alberi, rami, sterpaglie di ogni forma e dimensione e qua e là c’erano schianti di alberi all’apparenza indistruttibili. Abbiamo continuato a scavalcare, a tagliare, ad aggirare fino ad arrivare alla forcella di valle Inferna e, dopo aver visto tanto sfacelo, mai nome poté apparire più calzante. Dalla forcella inizia la dorsale che conduce alla cima del Col Duro che speravamo risparmiata dal vento, convinzione che ben presto abbiamo dovuto accantonare. Le raffiche risalite dalla valle Inferna avevano scavalcato per riversarsi nella valle del Boite e ancora abbiamo trovato abbattimenti di alberi di grosse dimensioni che però è stato più facile aggirare abbassandosi nel lato che era rimasto sotto vento. Dopo quattro ore siamo arrivati alla spalla del Col Duro, con bella vista sul monte Pelmo; qui il vento pareva essere passato con mano più leggera e, calcolando di impiegare mezzora per arrivare in vetta, abbiamo proseguito decisi. Un paio di aggiramenti ci hanno evitato di fare altri tagli, infine con un’ultima dorsalina erbosa siamo arrivati sull’anticima. Lo sguardo verso Zoppè ci ha fatto notare che anche là il vento era passato come un “ferro da stiro” lasciando evidenti tracce sui boschi, prima di riversarsi oltre l’ampia forcella. La vetta del Col Duro è stata raggiunta dopo quattro ore e venticinque minuti di “seghettescursionismo”. Il tempo di un autoscatto e siamo ritornati sui nostri passi, facendo lo slalom tra gli alberi caduti, tornando a infilare i passaggi tra i rami che avevamo aperto all’andata, scavalcando gli accatastamenti più grossi e arrivando alla strada prima che facesse buio ci sorprenda. Al rifugio Remauro un the caldo e una fetta di buon strudel hanno predisposto gli animi al ritorno in auto verso la pianura Padana.

Abbiamo documentato la situazione di tutto il sentiero sperando che possa tornare utile in futuro per quelli del luogo che dovranno intervenire per la messa in sicurezza dei sentieri. Sono state sette ore e un quarto per andare e tornare di cui la metà di cesoie e seghetto. Le energie le abbiamo spese tutte ma quando pensi che quello che fai potrà in qualche modo essere utile ti viene una forza impensabile. Riesco a capire a fondo la reazione che hanno avuto le genti di montagna delle zone colpite; una grandissima reazione di tutta la comunità e questo è un bellissimo segnale. La molla più importante per poter guardare al prossimo futuro con un poco di ottimismo.

Una grandissima reazione di tutta la comunità e questo è un bellissimo segnale
Gabriele Villa

Gabriele Villa

Frequento la montagna fin da ragazzo come escursionista, ciaspolatore, arrampicatore. Come Istruttore di alpinismo ho operato nel CAI per una quarantina d’anni. Amo scrivere per raccontare cose di montagna e assieme ad amici gestisco il sito intraigiarùn che vuol essere un invito e uno stimolo alla scrittura.


Il mio blog | Nel 2012 partecipai al primo Blogger Contest e in seguito ho continuato a scrivere per altitudini trovandolo uno stimolante luogo di scrittura oltre che di confronto e condivisione culturale con persone che condividono la passione per la montagna e con alcune delle quali ho potuto stringere preziosi legami di amicizia.
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