Reportage

#88 DECOMPORRE

testo di Daniel Coffaro, illustrazioni di Claudia Grande,  / Torino

02/01/2021
9 min
Il Bando del BC20

Decomporre

di Daniel Coffaro

È come se la natura, a una determinata altezza, cominciasse a espirare e si facesse vedere nuda per quello che è.

È come se qui, tempo fa, l’uomo genuino l’avesse presa sposa in segreto e, sempre qui, sempre allora, l’uomo adulterato avesse rivendicato il suo ius primae noctis, stuprandola, lasciandole sul corpo delle terribili ulcerazioni.
Eppure le cave hanno un fascino evidente.

Se guardo a lungo il profilo eroso delle montagne, se perdo il riferimento visivo panoramico, ho l’illusione di vedere comparire la porzione mancante della roccia che, come uno spirito antenato, presenta immobile e severo un monito ai viventi: tutto ciò che di più massiccio esista, si decompone anch’esso.
Guido lentamente le strade di montagna in una mattina di fine agosto. Presto poca attenzione a una via spopolata e mi concentro sulla veduta che attraverso. La vegetazione, la luce, il peso dell’aria sono già cambiati da diverse centinaia di metri verticali.
Mi ricordo che qualche anno fa sono entrato in uno scavo dismesso e ho appoggiato l’orecchio alla pietra, vicino a un piccolo deflusso d’acqua. Ho ascoltato il suono liquido amplificarsi fino a credere di sentire la voce della montagna stessa.

Le pareti intime delle cave, lisce e fredde, si possono alzare fino a diverse decine di metri, fino a creare stanze lunghe e squadrate, fino a riprodurre navate, transetti e colonne, per darti poi l’impressione di essere all’interno di un duomo.
Una chiesa-madre eretta per sottrarre terra alla terra.
Una cattedrale che renda gloria all’avarizia, il più umano tra i vizi capitali.

Mentre guido ascolto alla radio un programma di divulgazione scientifica. La domanda della messa in onda di questa mattina è: se è vero che siamo nell’epoca geologica dell’Antropocene, a quando occorre farla risalire? Insomma, se l’uomo ha iniziato a influenzare in modo drastico il territorio, la struttura e il clima del pianeta, ha senso dedicargli uno spazio nella storiografia geologica? E, nel caso, quando sarebbe finito il Neozoico?

C’è chi sostiene che sia adeguato porre il capotasto sulla Rivoluzione Industriale, ma con una tempistica così breve, appena due secoli, non avrebbe senso parlare di epoca.
Così la comunità scientifica sta decidendo di collocarne l’inizio a quando l’homo sapiens abbia sostituito nell’arco evolutivo la figura dell’homo neanderthalensis, duecento secoli fa.
Un buon compromesso, moderato e inconfutabile. Bravi scienziati. State diventando abili a non porvi le domande più urgenti; in cambio ottenete risposte perspicaci.
Quando sostituiremo alla scrittura geologica la nostra autobiografia potremo erigere cattedrali anche in nome della nostra superbia.

Spengo la radio, non voglio avere pensieri critici. Né creativi, clementi, disperati, universali, generici. Voglio solo camminare un sentiero, respirare un sottobosco, guardare una corteccia. Incontrare quel pastore che vedo ogni estate e chiedergli se ha piacere di vendermi un formaggio. Vedere un animale selvatico in lontananza.
E invece vedo un uomo.
Un uomo vestito di nero cammina a bordo strada. Indossa un abito talare, è un prete.
Immagino che con la mano alzata e il palmo forte mi inviti a frenare l’auto, come una specie di sacerdote vigile urbano. Cosa avremmo da dirci io e un prete?
Abbasserei il finestrino e lui si chinerebbe fino a entrarmi nell’abitacolo.
Crederei che mi voglia confessare e mi stupirei: Qui, così?
«Buondì,» mi direbbe.
«Salve,» risponderei.
Controllerebbe con lo sguardo tutto l’interno dell’auto, nell’arroganza di un uomo che confida nel perdono.
«Dove va in questa bella giornata?».
«Vado a trovare un pastore».
«Faccia attenzione, sono tornati i lupi».
«I lupi?»
«Sì. “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci” dice il Signore. Vuol sapere quale sia l’animale più citato dalle Sacre Scritture?»
«Il serpente?»
«Va bene, si riguardi».
«Arrivederci».
Il nostro scambio si consumerebbe più o meno così.

La strada che conduce alla malga è dissestata e macilenta durante l’ultimo tratto, ma con un po’ di prudenza riesco a raggiungere la piana.
Parcheggio l’auto nei pressi di una piccola chiesa bianca, antica di qualche secolo e dedicata a Maria Maddalena, che riflette la luce di un sole molto presente, rendendo il verde circostante particolarmente vivo.
Da qui in poi, zaino alle spalle, proseguirò a piedi per circa un’ora, impiegandomi in un dislivello di circa trecento metri.

Se sarò fortunato, tra crochi e tarassaco, potrò trovare dell’aglio orsino, dell’aneto o dell’achillea per poter insaporire il burro, o semplicemente per le infusioni.
Cammino cercando di distribuire l’attenzione in modo equilibrato. Il respiro dentro, l’ambiente fuori. Poi accolgo il flusso contrario. Infine, in lontananza vedo due uomini e un gregge.
La cultura classica ha assuefatto la figura del pastore, restituendoci un’immagine di bucolico romanticismo, ma la ricostruzione non è così esatta.
Per la maggiore, quando due pastori si incontrano, difatti, non parlano del profumo dei fiori e del cielo stellato, non cantano rime, non contemplano la vita campestre.
No, essi discutono di problemi.
Per loro quello che conta sono le pecore.
La loro vita sono le pecore.
Parlano per ore di pecore.

I problemi che può causare al pascolo un’alluvione o una frana, il prezzo di vendita del latte, e dei prodotti derivati, sempre più basso, la lana che viene ormai utilizzata solo per la produzione di isolanti edilizi e si svende a prezzi irrisori, per non parlare del fatto che, comunque, la tosa ha un costo ed è necessaria al benessere del bestiame.

Tutti gli altri fatti che accadono nel mondo appartengono a una dimensione lontana per i pastori.
Sapendo già che le apprensioni condivise tra quei due uomini sono tante, che il loro rituale lamentatio vuole il suo tempo, mi siedo all’ombra di un arbusto e riprendo respiro.
Osservo in lontananza le cave sui picchi che circondano il pascolo e cerco di impressionare la mia vista, facendo ricomparire la porzione di montagna erosa.
Faccio un respiro profondo e sento odore di sterco.
Anche se è merda, è merda pulita, mi viene da pensare.

Tre pecore mi si avvicinano.
Una si blocca a diversi metri da me.
Una mi sorpassa, andando a brucare dietro di me.
L’altra si ferma a guardarmi negli occhi, distante una spanna.
«Ogni pecora ha il suo carattere preciso. Lei è curiosa, è coraggiosa» mi dice uno dei due pastori.
Mi alzo e lo saluto «Si ricorda di me? Vengo per i formaggi».
Sembra non importargli di ricordare. Ha uno smacco nello sguardo, una smorfia cronicizzata, una sorta di ironia nei confronti della vita.
«Di cosa parlava con l’altro pastore?» gli chiedo.
«I lupi si sono spostati, erano vent’anni che non si vedevano qui. Ora cacciano a queste quote. Il mio amico è preoccupato che possano attaccare anche il suo gregge».
È una cosa grave, ma non ne sembra angosciato.
«Lui tornerà a valle domani; – mi racconta – se le pecore dovessero partorire ora si allontanerebbero dal gregge e insieme ai loro agnelli diventerebbero tanto vulnerabili quanto appetibili per i lupi».
«Anche lei scenderà?» gli chiedo.
«No, in questo periodo i pascoli di valle non sono abbastanza nutrienti».

Ci sediamo su una roccia, gli dico che mentre venivo su ho incrociato la strada con un altro tipo di pastore, un prete, e che forse anche lui si preoccupa dei lupi. Il pastore mi risponde che in questo posto la sola presenza dell’uomo è testimoniata dalle cave e dalle chiese e si è sempre chiesto come mai due attività così superflue ai fini di una vita genuina siano arrivate fino a qui.
Forse le ricchezze materiali e spirituali possono essere valide ragioni. Non mi stupirebbe se l’Antropocene vedesse l’uomo conquistare il Sistema Solare, erigendo miniere su Saturno e chiese sulla Luna.

Il pastore lancia un fischio e batte due volte le mani. Mi dice che odora l’arrivo di un temporale e che è meglio portare il gregge verso il rudere.
Bisogna ripararsi perché qui alla tempesta non gli stai sotto: gli stai dentro.
Mi alzo e mi metto a spalle lo zaino, nello stesso tempo i cani hanno già radunato il gregge.
Dopo venti minuti di cammino riesco a intravedere la rovina di pietra dove quest’uomo passa le notti d’estate e tratta le bestie.
Il cielo ha cambiato umore con una rapidità capricciosa.
Le prime gocce di pioggia ci cadono sul viso e la voce di un tuono sembra volerci ricordare la nostra condizione precaria.

Le cave bianche hanno assunto una colorazione opaca pesante.
Gli animali vengono condotti al riparo e il pastore mi fa entrare nella struttura eretta in pietra. Una sola grande stanza, un soppalco con un letto, un divano scabro, un camino, un tavolino e un mobile antico.
Osservo i movimenti di quell’uomo, comodi nella sua tana, ancestrali. Mentre mi consegna un formaggio e una bottiglia di latte, lo pago. Lo ringrazio. Poi mi sento simile a lui, suo alleato gemello. Di cosa hanno bisogno due tipi come noi? Cosa possono rivendicare su questa terra? Ci vedo parlare con un’unica voce, fino a sentirci dichiarare che, oggi, non proviamo mancanza dei nostri genitori, di una vita possidente, di un’educazione selettiva o di un Cristo morto in croce.
Abbiamo noi stessi e quello che siamo diventati ci basta.

Siamo due uomini semplici, con bisogni modesti e obiettivi umili.
Viviamo in un mondo incomprensibilmente grande, sofisticato, e non sentiamo il bisogno di scomporlo o padroneggiarlo. Non siamo come gli altri uomini che bramano i lapislazzuli custoditi nel cuore della Terra. Non siamo come chi, professando misericordia, specula sulla costruzione del ponte tra Messina e Città del Vaticano, tra Uomo e Dio.
E se quest’uomo, la mattina, fa il segno della croce sul secchio della mungitura come vuole la tradizione pastorale, io lo perdono, perché in lui questo rituale ha un significato riscoperto. Così come il mio perdono ha un rilievo laico.

La montagna erosa, là fuori, è testimone del nostro bilancio.
Spero non essermi sbagliato di troppo e che mi sia concesso di sentirmi simile a un pastore.
Il temporale sembra aver preso un’altra direzione.
Lo saluto e mi faccio accompagnare per qualche metro da una corte di cani dal pelo sudicio. Poi accarezzo le bestie e le invito a tornare a casa.
Non appena metto in moto l’auto vedo di nuovo il prete.
Immagino che mi bussi sulla portiera.
«Buondì», mi direbbe.
«Salve».
«Ha visto che tempo? Sembrava dovesse venire giù il cielo, ma ora c’è di nuovo il sole».
«Già».
«I temporali, di questi tempi, non sono più genuini, figliolo».
«Padre, noi non siamo più suoi figli. E presto non saremo più uomini», risponderei.

Guido lentamente, attraversando la vegetazione, nel ritorno.
Sento che il paesaggio, dentro di me, è stato usurpato per molto tempo.
Mi mando giù nelle mie cave emozionali, facendo attenzione a non scivolare laddove il percorso diventi più sleale.
So che per rimanere vivo devo devolvere e assecondare il richiamo selvatico. Devo porre il confine con la natura esterna, ma non devo più sottrarmi alla mia natura animale. Non devo più pregare una scienza o studiare una religione.

Sarò empatico eppur severo, rispettoso tuttavia violento.
Solo allora potrò smettere di essere uomo. Vivere, e morire senza paura, senza lucro.
Saprò dove cercare un mio territorio personalissimo e imparerò come risparmiarlo dai miei avanzi sintetici. Non lo eroderò. Lo rispetterò e ne sarò custodito.
Poi inizierò a decompormi.
Tornerò a essere genuino. Lupo per metà. O pecora. Iena, serpe, leone.
Troverò una nuova tana, mi occuperò di un mio gregge e migrerò fin dove, di nuovo, un luogo saprà intridersi di me, perfettamente.

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Daniel Coffaro

Daniel Coffaro

Sono nato in un paese tra le montagne di Torino, nel 1988. Ho studiato Fotografia e ho un Master in Storytelling. Sono stato produttore esecutivo su set cinematografici. Oggi scrivo narrativa e lavoro su progetti di comunicazione.


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