Reportage

#31 LACRIME DI MONTAGNA

testo e foto di Achille Rumolo  / Napoli

10/12/2020
8 min
Il Bando del BC20

Lacrime di montagna

di Achille Rumolo

La burrasca imperversava torrenziale, scorrendo impetuosa sul muschio selvatico, insinuandosi tortuosamente tra le curvilinee venature della pietra.

Sulle pareti non levigate della roccia, una sporgente massa orlata da sparuti squarci di radura olivastra, spuntava nelle sporgenze convesse delle feritoie scabre, prendendo la forma del vento e la clemenza del tempo giocava a dadi senza facce con l’impietosità metereologica, impossibile da domare.

Era luglio inoltrato e non mi ricordo tanta acqua cadere incessante senza carità di suono, come versata da bacinelle strabordanti dal cielo. Un mantello sopra le nostre unità, imbiancato da ampie pennellate nuvolose, sferzanti tra le goccioline nebulizzate da l’allotropia dell’aria secca e dall’ossigeno allo stato semi-liquido. Le nostre ombre smarrite nei pensieri, dentro le ore dense che non concedono tregua.

Attendevamo rintanati già da un po’ sotto una caverna convessa, cesellata dentro una rientranza ad arcuatura morbida del profondissimo strato di quarzite; un rifugio di sorta, sospeso nel disincanto di un paesaggio ammantato dal diluvio diagonale, che flagellava le increspature rocciose della nostra ‘capanna’ indistruttibile, affacciata sul giudizio universale del tempo.

Margaret stringeva arcignamente le braccia conserte, cingenti il suo busto dalla volumetria snella, il k-way blu oceano arricciato dolcemente in vita con le bordature sfrangiate, sotto cui un leggins grigio chiaro fino ai malleoli, le delineava le scultoree gambe, tese dal freddo irretente. La sua compostezza in un momento di disarmo di scelte era quasi intrigante. Guardava in basso con la pupilla in assorbimento, stava forse riflettendo su quanto i lampi nel cielo siano ancor più premonitori d’un segno del destino.

Del suo carattere introverso ho sempre ammirato il morigerato equilibrio e il riserbo su temi e situazioni che carpisce con l’intuizione dei sensitivi, destando volutamente l’impressione di essere distratta da cose ineffabili oppure neutrale rispetto agli accadimenti mistici. Lei è come le piante dal fusto potente, oscillano e traballano se le spingi, ma non si spezzano mai. Ed a me ha insegnato che dalla natura devi aspettarti di ricevere molto più di quanto le offri senza chiederle nulla in cambio, ma di non meravigliarti se quello che ti dona a volte si produce in qualcosa di spaventosamente attraente.

Quando in seconda mattinata, avevamo abbandonato il tendaggio della baita dove da due notti trascorrevamo i pernottamenti insieme all’adunata dei forestieri dell’accampamento misto, per la nostra Route di avanscoperta giornaliera, tutto ci sembrava lieve e ci siamo incamminati verso le sommità del monte Ortles a forma di nave da crociera, 32°gradi latitudinali a levante rispetto alla nostra ubicazione. Malgrado l’assenza di avvisaglie del clima mite, Margaret aveva già l’espressione imperturbabile di colei che è conscia d’aver le ali dell’entusiasmo tarpate da un drappello di angosce.

Avventurarsi sul pendio del costone oblungo che si proponeva imponente stagliandosi in fastigio, divorando lo spazio svettando in larghezza, quasi un ponte interrotto dal manto nuvoloso, è stato uno slancio meramente emotivo, pertinente a quello spirito avventuroso da romanzo di formazione di cui siamo ferventi depositari e che divampa in tutta la sua quintessenza dinanzi ad un paesaggio spurio, rimasto inalterato rispetto all’orogenesi, spettacolare e maestoso. Sospinti dal soffio vitale del venticello, lungo il tragitto, abbiamo calpestato migliaia di ciottoli dello sterrato, costituiti principalmente da aguzzi pietroni, spigolature di roccia e radissimi zerbini difformi di barbara erba selvatica, cresciuta in zone dove il senso è tutto da rintracciare. Abbiamo affrontato una camminata zigzagante nel dedalo di viottoli intrecciati dentro la bassa vallata abbacinante il selciato, con modesti passaggi scorrevoli, evitando i piccoli guadi e gli ostacoli emergenti in quell’impasto disomogeneo di roccia granitica e sterpaglia, intervallato da qualche cespite di stella alpina dal ciuffetto ribelle color ruggine, che sembrava annaspare da sottoterra per prendere aria.

Nell’incedere del percorso sinuoso, abbiamo assaporato i carezzevoli odori della montagna, una miasmatica essenza pervasiva che trasuda dai polmoni in tutti gli altri organi. Abbiamo rispolverato quel languido bisogno di sentirsi vivi. La commistione di gaudenze per il cervello, è stata cadenzatamente trafitta dalla muta del tetto celeste, artefatto. Una pletora di nuvole sovrastava i nostri corpi, annebbiati da una foschia che andava addensandosi in maniera conturbante. Ci siamo sentiti di colpo una riproduzione olistica in scala naturale de “Il viandante sul mare di nebbia” di Caspar Friedrich. D’improvviso siamo stati quasi travolti dal l’innalzarsi d’un vento di maestrale spirante in direzione ostinata e contraria alle nostre ambizioni. In quei momenti eravamo decisamente inermi dinanzi alla fenomenologia temporalesca e la cupezza ambientale in divenire ha imprigionato le nostre brulicanti fantasie.

La montagna di per sé è un condensato di magia bianca, un’arte policroma, un anatema della vita dinamica senza attimi immoti, un immanente blocco dalle solide dimensioni disomogenee che si oppone alla stratificazione dell’oblio delle viscere terra. Per noi due rappresenta il luogo sovrano dove lasciar divampare tutte le negatività dei giorni cupi e contagiarsi di spore e linfa arborea. Stavolta però una docile paura ha invaso il ginepraio di sensazioni e trapassato la membrana labile del nostro subconscio. Una bufera terribile stava per innescarsi e trovare un riparo dalle intemperie ancora per poco indulgenti, la più consona delle soluzioni plausibili.

Abbiamo camminato senza interruzioni lunghe, per diverse ore ed abbiamo constatato che raggiungere la punta apicale del monte, divergente alla nostra posizione, fosse cosa improvvida se non impraticabile date le condizioni climatiche, l’orario pomeridiano e il tratto di distanza sia dal luogo di destino che da quello di partenza. Il sentiero variopinto diventava sempre più grigiastro, tumultuoso e non potevamo trascendere le scintille nel cielo come se niente stesse accadendo. Bagnarsi ad alta quota non è piacevole come farlo a mare, l’acqua è più fredda e l’aria meno rarefatta. La pioggia scrosciante si avverte in tutta la sua pungenza ed ogni fiotto è fulmineo, forse perché la precipitazione esplode prima nell’atmosfera. Affrancarsi reciprocamente sulla scelta da optare è stata la cosa più facile del mondo; pochi sguardi incrociati ben assestati, qualche parola bisbigliata nell’affettazione del fremito, e la nostra resa d’intenti è stata ratificata dal sigillo dalla presa a braccetto l’una nell’altro. Dovevamo aspettare pazientemente e lasciar passare la tormenta, sperando che non facesse buio che nel nostro caso avrebbe significato tenebre.

Accasciati alla men peggio sulle scomode amacature della spelonca, ci scambiavamo desideri mentre assistevamo impotenti ai fluttuanti rivoli d’acqua sospinti dal turbinio del vento ferale in tutte le direzioni dell’etere, accompagnati dai roboanti tuoni spacca timpani. La pioggia scandiva i minuti con un ritmo ipnotico e la sua fissità diventava quasi monotona. Non riuscivamo a scorgere orizzonti percettibili e anche lo snodo della catena montuosa che contornava tutta l’area circostante, che prima appariva come un gigantesco serpentone, era praticamente indistinguibile.

In quei momenti, per quanto non lo ammetteremo mai compassionevolmente, ma abbiamo avuto terrore puro di ciò da cui siamo maggiormente attratti. Magari ci siamo sentiti sedotti e abbandonati dalla montagna, che non ci aveva mai paventato il proprio aspetto più esterrefacente e disagevole. In quella cavernucola in un altro momento ci saremmo addentrati come api che entrano in un alveare per impollinare il miele, invece ora era una prigione a cielo aperto. Per tutto il periodo di eremitismo forzato in cui siam rimasti lì alquanto infreddoliti, nell’incavo dei nostri volti prendeva colore un mosaico di espressioni sinistre. Abbiamo conversato a singhiozzi, le preoccupazioni erano inabissate dal rumore sordo dell’acqua, le emozioni trattenute, i nostri argomenti semiseri, le frasi secche e algide, ci interpellavamo reciprocamente con domande mai banali ma che richiedevano risposte brevi, in mezzo alle conseguenze di quello che ci attendeva, tangibili, e la notte incombente.

Non saprei quantificare le ore trascorse imbambolati psichedelicamente a scrutare la pioggia mefistofelica: prima forte e impetuosa, poi più debole e delicata, poi di nuovo perdurantemente diluviante. Fece sera. Avevamo lucine alogene da campeggio acquistate in uno store cittadino qualche giorno prima di partire, ma che servivano solo a baluginare flebilmente nel buio più totale. Non conoscevamo la nostra posizione perché il navigatore non rintracciava campo di rete e le linee telefoniche risultavano irreperibili data l’altura.

Ci addormentammo snervati ed esausti, convenimmo di dissipare le ultime energie rimaste sdraiandoci con le spalle frigide accoppiate e perpendicolari alla nostra ascissa corporea, addossati alla men peggio. Margaret perse completamente la memoria muscolare della posizione eretta, credo che sia stata abbracciata serratamente da Morfeo e caduta in preda ad un sonno onirico, quasi fosse svenuta. Quando calai le serrande delle palpebre arrugginite, tutto apparve completamente diverso da com’era in realtà, appeso all’elastico della proiezione visiva, una deformata illusione, una millantata armonia. La notte ci inghiottì e ci fagocitò, ingurgitandoci silenziosamente, sputandoci fuori all’alba con una flemma diversa e una percezione vivida della filigrana inafferrabile che ci scorreva dinanzi.

In quelle 5-6 ore sedati dalla stanchezza, il cielo aveva pianto così intensamente, che in una via lattea parallela doveva essere accaduta qualche catastrofe fuori d’inventario per gli esseri umani da avere un motivo valido per disperarsi fragorosamente; persino le montagne avevano lacrimato specchiandosi nelle nubi e il loro struggimento aveva richiamato l’acqua dal cielo creando un’opera mirabile.

L’alba fu una folgore abbagliante, come se un paradiso artistico fosse sceso a lustrare la terra per qualche minuto, un Eden con colori indistinti arricchito di elementi dalle sembianze amorfe, dove tutti i monti parevano così alla portata e rilucenti che la loro esistenza si tingeva d’irreale. L’immagine terrestre più affascinante e stupefacente che avessimo mai visto. Era valsa la pena perdersi nell’oscurità bagnata.

Il percorso a ritroso è stato un silente contrappasso con il paesaggio che ci inondava di sensazioni e figure violentemente espressive, tutte a dimensione naturale, mentre ci temperavamo del clima mite del mattino albeggiante con un primigenio chiarore che magnificava in alto. Gioviali come due boy scout della prima ora, annusammo i profumi essenziali della felce irrorata di linfa nuova, assuefacendoci dell’inebrio di tutte le piante e dei compunti fiorellini di varietà differenti che abitano le distese erbose.

Arrivammo alla base alle 8 e 13, con i vestiti ancora intrisi. Avevo i piedi gelidi, una fame imperiale e in bocca un acquosa amarezza. Vidi per la prima volta il segnale del telefono riacquistare captazione. Lo scenario da apocalisse che si proponeva di fronte a noi era scoraggiante. Fango ovunque, tele bucate e trascinate sugli alberi (quelli non inclinati o con i tronchi caduti), pali e aste divelte o spezzate, corde mozzate, legna sparsa ovunque. Zaini trafugati dal vento, strappati e rovesciati, oggetti sparigliati a vario titolo sul praterello e sul terriccio umido, tra cui la griglia per il barbecue e il carbone. La nostra roba personale smarrita, per sempre.

Una deducibile conseguenza di quello spontaneo pianto notturno del cielo su cui noi due, guardandoci in faccia, adesso ridevamo genuinamente, insieme al sole.

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Achille Rumolo

Achille Rumolo

Sono uno scrittore senza genere.


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